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lunedì 7 ottobre 2024

Sicilie del vino nell'800: I duchi di Salaparuta a Casteldaccia... non lontani da Bordeaux

 di Pietro Simone Canale

Rosario LENTINI, Sicilie del vino nell’800. I Woodhouse, gli Ingham-Whitaker, il duca d’Aumale e i duchi di Salaparuta, Palermo, Palermo University Press, 2019, 267 pp., [Frammenti, 20].
 
La storia enologica siciliana del diciannovesimo secolo sembra avere una natura favolosa e per alcuni versi appare strabiliante, se si pensa alla rapidità con cui alcuni celebri vini si imposero sul mercato internazionale e agli apprezzamenti che i prodotti della nascente industria vinicola ricevettero. Tuttavia, dietro al successo del vino Zucco, per citare uno dei prestigiosi nomi in questo libro, o del marsala, si nascondono la passione, l’intuizione, la capacità di guardare oltre, le scelte imprenditoriali e il contributo della scienza. Tutto ciò è raccontato magistralmente nel delizioso libro di Rosario Lentini, Sicilie del vino nell’800, edito nel dicembre del 2019 per i tipi della Palermo University Press nella collana «Frammenti». L’autore, studioso di storia economica della Sicilia dal ‘700 al ‘900, ha scritto numerosi saggi sulla famiglia Florio, sui mercanti-banchieri inglesi e sulla secrezia di Palermo, sulla vitivinicoltura siciliana, tra i quali un’importante storia dell’invasione «silenziosa» della fillossera, e sull’economia delle tonnare.

Come si evince dal sottotitolo, I Woodhouse, gli Ingham-Whitaker, il duca d’Aumale e i duchi di Salaparuta, l’opera analizza le vicende storiche e familiari di alcune emblematiche esperienze sorte nelle province di Trapani e Palermo tra la fine del Settecento e la prima metà del ventesimo secolo. Attraverso lo studio di fonti documentarie, in primis quelle dell’Archivio di Stato di Palermo e degli archivi marsalesi, e di quelle a stampa dell’epoca, l’opera ha il merito di mettere da parte alcune delle ricostruzioni fantasiose ed aneddotiche fatte dagli stessi soggetti studiati per questioni che oggi definiremmo di marketing.

A essere narrate nella prima metà del libro, con dovizia di particolari e perizia di storico, sono la produzione e la commercializzazione del vino marsala da parte degli inglesi Woodhouse ed Ingham-Whitaker. Approfittando della congiuntura internazionale delle guerre napoleoniche e dell’occupazione britannica dell’isola, le due imprese commerciali riuscirono a imporre sul mercato inglese, inizialmente come prodotto per rifornire le truppe stanziate nel Mediterraneo, il vino marsala. Il successo di questo prodotto, nato come sostitutivo di alcuni vini liquorosi spagnoli e portoghesi come il porto o il madeira, portò alla creazione di una vera e propria industria vinicola indipendente dall’agricoltura. Tutto ciò segnava una “trasformazione”, analogamente a quanto avveniva nell’Europa della rivoluzione industriale. L’epopea dei due marchi inglesi è oggi tramontata, sebbene essa rappresenti tuttora una delle principali esperienze di investimenti esteri in Sicilia, le quali hanno contribuito a fare dell’isola una delle principali produttrici di vino e a rendere il marsala uno dei prodotti siciliani più noti ancora oggi.

Nella seconda parte del libro l’autore esamina invece l’esperienza “francese” della Sicilia del vino, raccontando le “gesta” del duca d’Aumale, figlio del sovrano francese Luigi Filippo, e del vino Zucco, e quelle dei duchi di Salaparuta e del Corvo di Casteldaccia, con le quali la sapienza enologica transalpina venne trapiantata nell’isola. Estreme punte di raffinatezza furono raggiunte dal vino Zucco e numerosi encomi, apprezzamenti e premi furono ottenuti in tutto il mondo dai vini di Edoardo Alliata e del figlio Enrico. Interessante è poi lo spazio dedicato a quest’ultima famiglia, paradigma di una nobiltà agraria che coglie il cambiamento in corso e capisce l’importanza dell’innovazione all’interno di un mondo, quello siciliano, ancora rigidamente legato alla dimensione feudale.

Ciò cha fa dell’opera un importante contributo di storia d’impresa, e non solo di quella vitivinicola, è l’individuazione di alcuni fattori significativi, quali l’introduzione di moderni criteri di vinificazione, la proliferazione di pubblicazioni e periodici specializzati, lo sviluppo degli studi ampelografici, la separazione delle competenze viticole da quelle enologiche, le forme di commercializzazione, la selezione dei vitigni e la valorizzazione di quelli autoctoni, la risposta alla fillossera e alla crisi del settore. Inoltre, in tutte e quattro le storie prese in esame nel libro appaiono evidenti alcuni passaggi fondamentali, come la modernizzazione, la divisione del lavoro, il problema della qualità del prodotto.

Importante per la storia della Vini Corvo e del territorio di Casteldaccia è l’ampio spazio dedicato proprio all’azienda vinicola fondata dagli Alliata. Il capitolo, I duchi di Salaparuta a Casteldaccia… non lontani da Bordeaux (pp. 149-227), ricostruisce con perizia la storia del vino Corvo dei duchi di Salaparuta, gettando luce sui protagonisti, dal principe Giuseppe, ai duchi Edoardo ed Enrico, a Topazia Alliata, esaminando le vicende dei feudi Corvo e Traversa e analizzando l’irresistibile ascesa commerciale del vino della celebre cantina casteldaccese.

Il capitolo si suddivide in sette parti: Giuseppe Alliata: il precursore (pp. 149-157); Il Corvo del duca Edoardo (pp. 157-168); Identità e qualità dei vini (pp. 168-177); Committenti e concessionari (pp. 177-191); Il poliedrico talento di Enrico Alliata (pp. 191-208); La fillossera a Casteldaccia (pp. 208-216); L’alchimista Topazia: artista, enologa, imprenditrice, gallerista (pp. 208-223).

Nella prima parte del capitolo si dà spazio alla storia dei feudi Traversa e Corvo e all’arrivo della famiglia Alliata a Casteldaccia attraverso il matrimonio di Edoardo (1818-1898), figlio del principe Giuseppe principe di Villafranca, con Felicita Lo Faso (1821-1888), figlia del marchese Gabriele Lo Faso Castelli e di Agata Abate e La Grua, ultima discendente di Ignazio Abate, marchese di Lungarini. In questa parte del libro si cerca anche di svelare, pur senza un esito pienamente positivo, la verità sulla presunta data di fondazione della vinicola, che la tradizionale etichetta del vino attribuisce al 1824:
 
Secondo quanto riferito da alcuni discendenti Alliata – cui si è attenuta larga parte della bibliografia relativa – in questo stesso anno sarebbe stato imbottigliato, per la prima volta, il vino che avrebbe inaugurato ufficialmente la fondazione della Casa-azienda. La notizia, in verità, non è suffragata da documentazione, né le ricerche tuttora in corso l’hanno confermata; deriva dalla tradizione orale familiare e, in quanto tale, va tenuta in conto, a meno che non si voglia considerare fonte attendibile un’etichetta di bottiglia per vini Corvo del 1911 di cui si dirà più avanti. Topazia Alliata, in una conversazione pubblicata a fine anni novanta del Novecento, ricordava un racconto del padre riguardo all’acquisto della torre di Casteldaccia da parte del nonno [in realtà bisnonno] Giuseppe, fino ad allora proprietà del marchese Lungarini. Anche questa informazione non trova appiglio nelle carte sin qui esaminate le quali mostrano, invece, che la data di avvio della produzione e commercializzazione dei vini da uve degli ex feudi di Salaparuta e di Traversa, da parte del citato Giuseppe Alliata, lavorate ed «educate» nelle cantine di villa Valguarnera a Bagheria, è antecedente al 1824, e che la nascita del vino denominato Corvo, nella seconda metà dell’Ottocento, con stabilimento a Casteldaccia, è da attribuire all’iniziativa del figlio Eduardo [anche Edoardo]. L’evento, quindi, che avrebbe determinato la scelta del 1824 come prima pietra miliare della Casa vinicola Alliata di Villafranca, va ancora svelato e raccontato e un primo elemento di chiarezza potrebbe arrivare dal ritrovamento del testamento del principe Giuseppe. A livello di pura ipotesi, in attesa di riscontri documentari e quindi di verifiche delle fonti orali tramandate dalla tradizione familiare fino ai nostri giorni, si potrebbe forse supporre che quelle 1.000 barbotte di zibibbo fatte impiantare nel suo girato di Sant’Oliva, nel 1824, siano l’indizio della nascita di un embrione di casa vinicola. Di certo, nelle sue terre non si vendemmiava e vinificava solo per l’autoconsumo, né si produceva il Corvo.[1]
 
Nell’archivio privato della famiglia Alliata, oggi conservato presso l’Archivio di Stato, si possono ricavare informazioni di fondamentale importanza anche per la storia del paese di Casteldaccia, poiché essa si intreccia strettamente con le vicende della coltivazione della vita nel territorio e della produzione vinicola nella Torre della piazza centrale del comune siciliano.
Nella seconda e nella terza parte del capitolo, invece, è data risonanza agli sforzi che i duchi di Salaparuta fecero per rendere il loro vino un prodotto di eccellente qualità apprezzato all’estero e soprattutto in Francia, ingaggiando già nel 1876 di Jean Lagarde, un illustre tecnico enologo francese con il compito di portare il vino degli Alliata al livello dei migliori vini francesi da pasto. La fine dell’Ottocento è quindi il momento dell’affermazione del vino Corvo e anche della nascita ufficiale del prodotto:
 
La nascita ufficiale del vino Corvo è certificata dal deposito del marchio presso la Prefettura di Palermo con una prima istanza del 20 maggio 1880, per ottenere l’attestato di privativa industriale della durata di sei anni, a decorrere dal successivo 30 giugno «per un trovato che nella domanda è stato designato col titolo vino Corvo bianco e rosso».[2]
 
Nella quarta parte è raccontata la commercializzazione del vino e il suo successo internazionale, le collaborazioni con le grandi case di distribuzione europee; mentre nella quinta parte si evidenziano il ruolo del duca Enrico e il suo amore per la produzione vinicola, anche dinnanzi a un evento catastrofico, come quello dell’epidemia di fillossera che distrusse quasi interamente la viticultura siciliana alla fine dell’Ottocento e di cui si parla invece nella sesta parte.[3] L’ultima parte è invece dedicata a Topazia Alliata, imprenditrice, forse troppo in anticipo per i tempi, e ultima proprietaria della vinicola, prima della cessione.

Lo studio condotto da Rosario Lentini, oltre a essere ricco di informazioni e dati storici, fornisce delle chiavi di lettura sulla «grande trasformazione» e sull’economia siciliana. Inoltre, invita a porsi domande sul perché tre delle quattro aziende narrate nel libro non siano più in attività e la quarta, la Vini Corvo, dopo l’acquisizione dell’Ente Siciliano per la Promozione Industriale finanziato dalla Regione siciliana, sia finita parte di un gruppo internazionale. Le risposte a queste domande vanno oltre il libro di Rosario Lentini, ma è possibile ravvisare alcune caratteristiche dell’imprenditoria italiana, quali la ristrettezza finanziaria negli investimenti e il problema di trasferibilità dell’azienda dall’ambito familiare a quello manageriale. Per questo motivo, le considerazioni conclusive dell’autore invitano a considerare le vicende del libro all’interno del più complesso quadro dell’economia e della finanza siciliane. Tuttavia, esse restituiscono un lieve retrogusto amaro, nonostante il profumo fiorito dell’enologia siciliana ottocentesca.

Una versione di questa recensione è stata pubblicata in «Storia Economica», 23 (2020), pp. 254-256.
 

[1] R. LENTINI, Sicilie del vino nell’800. I Woodhouse, gli Ingham-Whitaker, il duca d’Aumale e i duchi di Salaparuta, Palermo, Palermo University Press, 2019, pp. 153-154.
[2] Ivi, p. 167.
[3] Si veda a tal proposito la vicenda di Giuseppe Tusa Modica di Casteldaccia, che propose dei rimedi per il contrasto alla fillossera in R. Lentini, L’invasione silenziosa. Storia della Fillossera nella Sicilia dell’800, Palermo, Torri del Vento, 2015, p. 109.



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