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giovedì 24 luglio 2014

L'estate che sparavano di Giorgio D'Amato

Giorgio D'Amato, L'estate che sparavano, Messina, Mesogea, 2012, 144 pp., (Petrolio, 5), ISBN 9788846921161.

Il romanzo L'estate che sparavano ricostruisce i mesi di fuoco in cui il nome di Casteldaccia rimbalzò sui giornali di tutta italia come uno dei vertici del famigerato “triangolo della morte”, insieme a Bagheria ed Altavilla Milicia. L'autore, Giorgio D'Amato, che in quegli anni lavorava in un bar di Casteldaccia, ha ricostruito quel periodo anche con l'ausilio di testimonianze dirette – come soggetti coinvolti a più livelli in quelle dinamiche mafiose - oltre ad un approfondito lavoro di documentazione su fonti pubblicistiche, giornalistiche ed atti processuali.

Così la presentazione del libro:

Il 3 agosto 1982 a Casteldaccia viene ucciso il cognato del boss Filippo Marchese, uno dei più sanguinari uomini di Cosa Nostra. Nell’arco di 8 giorni moriranno 15 persone. A ricostruire i delitti e dare un profilo chiaro dei killer e delle vittime è un narratore insolito, un ragazzino di sedici anni, che mischia al lucido racconto degli eventi storici le esperienze di vita quotidiana, la cultura cinematografica e quella letteraria, ma soprattutto lo stretto legame che lo lega al suo amico Antonio. Con un registro preciso ma semplice, l’autore racconta una giovane generazione che vive anni di modernizzazione consumistica, in cui però non tutti sono estranei alle sollecitazioni culturali e ai sogni ribelli dei due decenni precedenti, nonostante il pressante contesto ad alta concentrazione mafiosa.


La Seconda Guerra di mafia comincia già nel 1981, con l’uccisione del vecchio boss Giuseppe Panno, ma nella prima metà dell’Agosto 1982 si concentra il fuoco di fila. Ma non si tratta più di una guerra tra buoni e cattivi. Quello che scoppia alla morte del capo supremo don Piddu Pannu (al secolo Giuseppe Panno, capo della famiglia di Casteldaccia) è uno scontro titanico per il controllo del territorio, è la battaglia tra la “mafia vecchia” (dei Bontade, degli Inzerillo, dei Badalamenti, dei Buscetta) e la “mafia nuova” dei “Corleonesi” di Luciano Liggio, di Bernardo Provenzano, di Totò Riina e di Leoluca Bagarella, ma è anche – e soprattutto – una guerra per il monopolio dell’importazione e distribuzione dell’eroina. Siamo di fronte alla prima grande faida di mafia, una prova di forza muscolare e criminale, in un batti e ribatti di vendette, o come le descrive il protagonista dell’opera di Giorgio D’Amato di “lavate di faccia”.

Il campo di battaglia è delineato dai tre paesi ad est di Palermo, Bagheria, Casteldaccia, Altavilla.
«Il ciak della battaglia – racconta Giuseppe Di Piazza, all’epoca cronista de L’Europeo – è una fucilata sparata nella notte di martedì 3 in una villa di Casteldaccia. Il killer solitario, che ha caricato l’arma con una cartuccia da caccia al cinghiale (a un solo pallettone), abbatte “come un maiale” il boss Gregorio Marchese, 38 anni», anche se in realtà Gregorio è solo il cognato del vero boss, ovvero Filippo Marchese, detto «‘a mulinciana», a capo della cosca di Corso dei Mille, uno dei più sanguinari uomini di Cosa Nostra.
Nella settimana che trascorre dal 3 all’10 Agosto 1982, si conteranno 13 morti in quello che viene ribattezzato il «triangolo della morte», ma a Palermo i morti superano quota ottanta. Tutti appartenenti ai clan in contrapposizione. L’11 Agosto, invece, a perdere la vita saranno il medico legale Paolo Giaccone (che si rifiutò di falsificare la perizia che inchiodava i killer della strage di Bagheria del dicembre 1981, quattro morti) e Diego Di Fatta, un giovane ucciso perché aveva rubato una collanina d’oro ad una vecchietta protetta dalla mafia.

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