CasteldacciaPuntoDoc pubblica oggi, giorno di San Giuseppe, il testo integrale della pubblicazione dell'antropologa Alessandra Giamporcaro sulla festa del Santo Patrono di Casteldaccia. Ringraziamo Alessandra Giamporcaro per la sua gentile concessione. Leggi qui la scheda del libro.
Casteldaccia:
la festa di san Giuseppe
Una
dialettica antropologica sugli scenari festivi
“ Il sapere procura il
retto uso delle cose
e la felice riuscita. E’
dunque necessario
che ogni uomo cerchi in
tutti i modi di
sapere quanto più si
può”.
Platone
PREMESSA
Non è
mai esistita una società senza “festa”. La parola festa designa
un momento diverso del tempo, in cui l’esperienza del sacro si fa
particolarmente commovente e immediata attraverso la celebrazione di
determinati riti. Gli studiosi hanno posto in evidenza che nella
festa si compie l’esperienza prima della sacralità del tempo nelle
forme cicliche, percepite entro una modalità mitico-religiosa. In
ogni società si manifesta attraverso la festa la ricorrente
sacralità di ogni cambiamento o passaggio, di ogni inizio o fine,
della vita biologica e cosmica. Le feste accompagnano il principiare
di ogni tipo di attività umana, il ciclo della vita individuale,
l’inizio delle stagioni, implicando il compimento di azioni
rituali, quali danze, processioni, banchetti, sacrifici, spettacoli,
giochi, gare e l’osservanza di prescrizioni o divieti che modellano
uno stile di vita diverso da quello quotidiano.
Le
grandi feste tradizionali che si svolgono nel ciclo dell’anno hanno
conservato un carattere agrario, nel loro riferirsi al ritmo della
natura, se non dell’attività agricola, pur assumendo significati
diversi.
Un
esempio significativo del calendario festivo siciliano è dato dalla
festa di san Giuseppe.
«Dei
Santi, il più carezzato patrono è san Giuseppe che occupa 13 comuni
[…]»1,
scriveva Giuseppe Pitrè a proposito delle feste patronali in
Sicilia. Tra queste emerge Casteldaccia, paese che celebra il Santo
Patrono in due momenti dell’anno: Marzo e Agosto.
Il
libro si articola in due capitoli.
Il
primo capitolo affronta il fenomeno festivo nei suoi tratti simbolici
più rilevanti. Da una prospettiva antropologica, appare fondamentale
la dialettica tra caos e cosmos. Il fine ultimo della
festa è di inaugurare un nuovo ciclo annuale attraverso riti di
propiziazione.
Nel
secondo capitolo si ricostruiscono le fasi, che caratterizzano e
compongono, oggi, a Casteldaccia, la celebrazione del Santo Patrono,
frutto di sovrapposizioni delle tradizioni tramandate. Si accenna,
inoltre, a come la festa si svolgeva intorno agli anni ’30-‘40 e
ai cambiamenti che ha subito nel tempo (come la corsa dei
cavalli), e a ciò che invece è rimasto immutato (la novena,
la tavulata, la processione e la volata degli
angeli).
L’Appendice
raccoglie le ricette delle pietanze che solitamente vengono preparate
in occasione della festa per imbandire le tavole dedicate al Santo.
Infine, un’appendice fotografica documenta negli aspetti salienti
la festa.
CAPITOLO I
RIFONDARE IL TEMPO E LO SPAZIO.
MORTE
E RINASCITA.
Le
manifestazioni festive che celebrano una solennità o un culto
religioso, rappresentano un momento di aggregazione da parte della
comunità e sono, tuttavia, il mezzo per affermare la propria
identità: “è attraverso la festa che ogni popolo afferma e
manifesta la sua identità sia individuale che collettiva”.
Infatti, «attraverso le feste le società ribadiscono e celebrano se
stesse e le proprie rappresentazioni della realtà cosmica e sociale.
I rituali festivi infatti non sono semplicemente un prodotto sociale
al pari di ogni altro fatto culturale, sono il mezzo con il quale gli
uomini rappresentano, in altri termini, il proprio mondo, dunque la
concezione del tempo e dello spazio che lo sostiene»1
.
La
scansione temporale della festa mette in scena l’andamento ciclico
del tempo, che è al cuore di tutte le rappresentazioni festive. Si
evince il timore dell’annuale esaurirsi del tempo unito al
consumarsi delle stagioni, pertanto si avverte l’esigenza del suo
recupero e della sua rifondazione.
Ecco
qual è il fine ultimo delle feste conclusive dei cicli annuali:
metafore e metonimie che animano il rito simulano il ritorno del
tempo; da ciò trae origine la forza di questa tradizione che assurge
come forza creatrice e ordinatrice per ricomporre il cosmos.
A tal proposito A. Buttitta chiarisce e rafforza questo
concetto con le seguenti parole: «[…] in questo modo la vita
ritornava a trionfare sulla morte, assicurando il persistere
dell’intera collettività. Ecco perché nelle feste la
partecipazione delle massime autorità tanto religiose quanto civili
è sempre stata ritenuta indispensabile. La loro presenza, in quanto
vertice di fatto dell’intero corpo sociale, costituiva di fatto la
garanzia nel momento della rifondazione nel tempo, nella
ricostituzione della società stessa»2.
La
festa tradizionale, legata all’organizzazione simbolica e sociale
del tempo, sconvolge il cosmos quotidiano, ora sostituito dal
caos in cui tutti i valori, tutte le norme vengono sconvolti;
tuttavia, «[…]
la trasgressività della festa non è fine a se stessa, ma è
funzionale al reinserimento nella realtà dell’esistente, con le
sue norme e gerarchie»1.
La
festa scandisce le fasi del calendario, un calendario che si
accompagna ai ritmi e ai modi di produzione; in tale scenario la
festa indica anche l’inizio o la fine di determinate stagioni,
quindi il ripetersi degli stessi cicli e degli stessi fenomeni
di morte e di rinascita della natura.
Anche
«lo spazio sociale che nel corso dell’anno si è caricato di forze
negative, viene purificato e sacralizzato attraverso il trasporto
processionale di vare recanti statue di santi. Operando la
sacralizzazione dello spazio che è anche spazializzazione del sacro,
sul caos della natura e delle società, viene imposto il cosmos»2.
Le
feste agrarie, in cui tempo vitale e agronomico e tempo festivo
coincidono, possono essere interpretate come riti di propiziazione.
In un orizzonte simbolico, i rituali festivi hanno lo scopo di
propiziare l’andamento del ciclo stagionale da cui dipende il
raccolto annuale; ne sono esempio le feste di san Giuseppe in Sicilia
celebrate due volte l’anno: Marzo-Maggio, Agosto- Settembre, due
momenti che celebrano l’apertura e la chiusura del tempo agronomico
e festivo.
Non è
un caso che nelle celebrazioni tradizionali «le manifestazioni
rituali sembrano incentrarsi tutte sulla ostentazione dei segni
dell’abbondanza»3.
Emblematico il caso di San Giuseppe in Sicilia: vengono imbandite
grandi tavolate con prodotti di vario genere, con primizie vegetali
raccolte proprio durante il primo mese di primavera, come le fave
verdi, tipiche di questo periodo, che vengono poste anche sui carri
delle processioni.
Come
nota F. Giallombardo, «nel complesso festivo delle feste di san
Giuseppe sembrano riconoscibili tre livelli:
a)
livello pre-agrario.
Esso è
connotato dalla presenza di cibi vegetali spontanei: le verdure
selvatiche, raccolte dalle donne per cuocere la “minestra” di San
Giuseppe; le frittate vegetali considerate le pietanze più antiche e
tradizionali. Il binomio donna-raccolta di prodotti vegetali
spontanei richiama forme di organizzazione economica e sociale
pre-agrarie.
b)
livello agrario-ctonio.
E’
connotato dalla presenza dei cereali, dei pani votivi, dei cibi
provenienti da piante coltivate, dalle offerte primiziali. Le azioni
rituali (questua di alimenti, banchetto, ostentazione di cibi, loro
distribuzione), tutte disposte nella dimensione sociale e collettiva,
solo rapportabili comparativamente
a antecedenti di tipo mediterraneo. Si hanno infatti somiglianze
morfologiche e funzionali con le feste agrarie proprie del mondo
greco preellenico.
c)
livello della rifunzionalizzazione cristiana.
Il
modulo mitico (fuga della sacra famiglia, ricerca dell’alloggio,
offerta del banchetto) riplasma in chiave cristiana un tema arcaico:
il viaggio dall’aldilà e il ritorno annuale dei morti, accolti e
rifocillati dalla comunità, infine congedati con doni alimentari.
In
questo complesso festivo appare dominante l’orgiasmo alimentare»1.
«Orgiasmo
significa eccesso, abbondanza, annullamento di regole e divieti del
vivere quotidiano: è abolizione del tempo quotidiano»2.
Il motivo dell’orgiasmo (come infrazione di norme date) è presente
ancora in molte feste popolari persistendo in varie forme anche nel
moderno carnevale. Questa manifestazione di carattere tumultuoso, in
cui i partecipanti, sottraendosi temporaneamente alle norme che
regolano il comportamento consueto della comunità, si abbandonano a
un’esplosione senza freno della vita fisica e psichica, rimanda al
caos di cui ho già parlato precedentemente.
«Ma,
l’orgia rituale deve essere in qualche modo preparata, l’abbondanza
dei prodotti non è data una volta per tutte, deve essere costruita
pezzo per pezzo. E’ qui che si evidenzia l’essenzialità della
questua, presente ai più diversi livelli del fare rituale, quale
meccanismo produttore dell’abbondanza, e dunque di innesco
dell’orgia: luogo in cui si incontrano e si coagulano valenze
simboliche e sociali, nodo da cui si dipartono azioni cerimoniali la
cui centralità può cogliersi solo a livello profondo del rito.
Questua e orgia possono costituire la chiave per cogliere in una
visione unitaria gli infiniti aspetti diversi e contraddittori della
festa»3.
La
pratica delle questue caratterizza anche i rituali di san Giuseppe.
Le offerte alimentari sono destinate a un banchetto rituale offerto
alla Sacra Famiglia oppure vengono vendute all’asta per ricavare
il denaro necessario al pagamento delle spese per i festeggiamenti.
I
banchetti di san Giuseppe possono essere privati o pubblici. Nel
primo caso la celebrazione avviene all’interno delle mura
domestiche e nasce dall’atto di soddisfare un voto fatto al Santo.
«Difatto sia che il voto venga formulato dalla donna che dall’uomo,
è la donna che si assume il compito di soddisfarlo concretamente. La
forma tradizionale di adempimento della promessa fatta al Santo è
costituita generalmente da un pranzo offerto ai poveri e dalla
realizzazione di un altare votivo in onore di san Giuseppe»4.
Una volta fatta la promessa è necessario mantenerla, se non si vuole
dispiacere il Santo. Il banchetto può essere offerto anche per il
piacere di farlo, senza la motivazione del voto.
Nel
secondo caso, il banchetto è organizzato dai comitati o dalle
confraternite all’esterno ed è offerto ai poveri.
«I
banchetti possono essere allestiti all’interno di magazzini, di
case o anche in luoghi esterni, come nei cortili, nelle piazze su
appositi palchi adorni di palme, rami di alloro, di cedro e di
carrubo. L’usanza più antica è quella connotata dagli
allestimenti esterni, in questo caso viene preparata una tavola
pubblica, sia nella fase preparatoria, che esecutiva, ovvero il
banchetto è reso possibile grazie al contributo di tutti»1.
Le
tavole private vengono allestite in casa da nuclei familiari. In
questo caso, è compito delle donne soddisfare il voto fatto al
Santo, preparando una tavola.
Le
diverse modalità di esecuzione del rito si imperniano intorno alla
dicotomia pubblico/privato, su cui si fonda il dualismo fra i ruoli
maschili e femminili. Le tavole o i banchetti allestiti in onore del
Patriarca esibiscono tantissimi cibi, soprattutto primizie di frutta
e ortaggi di stagione. « Tutti questi elementi chiaramente
manifestano le tracce di un arcaico simbolismo legato ai riti di
propiziazione che, nel mondo greco-romano e presso le culture di
interesse etnologico appaiono connessi a forme di commemorazione dei
defunti. La correlazione tra rinascita della vita e culto dei morti
trova infatti giustificazione nell’idea che per stimolare il
risveglio delle forze della natura bisogna assicurarsi con offerte
alimentari anche il favore dei morti. Questo nesso può spiegare nel
banchetto di san Giuseppe la presenza costante delle primizie, che
negli antichi rituali agrari d’inizio d’anno venivano offerte
agli spiriti dei defunti per purificarli e propiziarsi la loro
potenza».2
I
rituali di san Giuseppe esprimono e garantiscono un bisogno di
protezione collettiva. Nel contesto storico in cui viviamo il
rapporto dell’uomo con la natura non è più dominante, tuttavia la
festa diventa il significante di un’esigenza di rassicurazione
dovuta alla perdita di coesione sociale e della crisi di identità
culturale; ecco perché il banchetto di san Giuseppe è offerto ai
poveri, coloro che esprimono l’emarginazione sociale, la mancanza
di status sociale e quindi umano, e mira ad esorcizzare la crisi
dello sradicamento sociale e culturale che incombe sugli individui3.
Dinnanzi
alla tavola dedicata a San Giuseppe viene sempre allestito un altare
«che assolve la specifica funzione di veicolare l’offerta umana al
Santo le cui grazie si richiedono e sono state concesse»4.
Un altare che assume il compito di rendere sacro lo spazio in cui si
trova, divenendo temporaneamente dimora del Santo.
Le
mense di san Giuseppe richiamano l’agape cristiano, ovvero il
convito fraterno che gli antichi cristiani compivano per ricordare
l’Ultima Cena. Ma, se nell’agape cristiana il cibo rappresentava
il corpo di Dio e consumarlo significava entrare in comunione con
esso, ciò non accade nelle mense di san Giuseppe in cui il rapporto
uomo-dio è differente: la Sacra Famiglia viene invitata a sedere
alla tavola e a consumare il cibo, affinché il gradimento delle
divinità soddisfi l’offerta fatta con una grazia.
Dunque,
l’uso in Sicilia di imbandire mense in onore della Sacra Famiglia,
ha lo scopo di rappresentare «il sacrificio fatto al dio e non il
sacrificio del dio»1.
La
condivisione della convivialità tra uomo e divinità è attestabile
anche nella cultura greca.
Le
feste di san Giuseppe attestano ancora una circolarità di cibo tra
gli uomini e le entità sacrali: in questo caso Gesù, Maria e
Giuseppe. «Si tratta di “invitare gli dei” a un pasto quanto più
ricco e abbondante per ricambiarne le generosità dimostrata in
circostanze rischiose della propria esistenza»2,
come una malattia.
Le
pietanze presenti sulla tavola, vengono in un primo momento offerte
alla Sacra Famiglia e successivamente vengono partecipate a tutto il
gruppo; inoltre, «coloro che sono invitati a rappresentare la Sacra
Famiglia, sono durante il rito “mendicanti mitici” , poiché
prima respinti e successivamente invitati a sedere e a consumare i
cibi della tavola »3.
Il
consumo sociale degli alimenti e la distribuzione di questi sono
tratti essenziali della celebrazione augurale di un nuovo tempo e
della rifondazione dell’universo sociale. Pane, vino, frutta,
agrumi e ortaggi sono tutti elementi ricorrenti nel banchetto di san
Giuseppe. Come afferma F. Giallombardo, «uno dei tratti cui la festa
allude, ossia la connessione fra simboli della vita e della morte,
intelligibile in rapporto al sostrato ideologico della ciclicità di
fine-reinizio, è resa altresì evidente dalla presenza nelle tavole
di particolari pani. Questi raffigurano parti del corpo di san
Giuseppe, e quindi metonimicamente il Santo stesso, come la mano e il
volto, oppure l’immagine della Sacra Famiglia»4.
Si tratta di pani antropomorfi, e il nutrirsi di questi pani
determina il nutrirsi di un “principio vitale rigenerativo”
che assicura una ciclicità cosmica, e che trova conferma nella
interconnessione tra vita e morte: «cibandosi di essi, è come
se ci si cibasse dei trapassati stessi»5,
assicurando in tal modo a se stessi e ai defunti la continuità
vitale.
Il
simbolo del pane evidenzia il rapporto tra il culto che celebra i
morti e l’evento della rinascita della natura. Il culto dei morti
viene propiziato con l’offerta dei cibi esibiti durante il
banchetto: da ciò
si desume l’abbondanza dei cibi e il patto indissolubile tra uomini
e divinità, succedaneo alla protezione fisica e sociale e alla
celebrazione periodica delle forze della natura.
In
conclusione, l’offerta alimentare fatta al Santo ha lo scopo di
propiziare la rigenerazione della natura e la rinascita dell’uomo;
infatti, l’elemento forte della festa è il cibo che rappresenta la
dimensione mitica del rituale festivo.
Le
pratiche alimentari, sacralizzate da un rito, costituiscono dei
segnalatori costanti dei ritmi della natura e dell’uomo, «la
concezione di un tempo, che oscillando tra massimi e minimi vitali
espressi emblematicamente dalla abbondanza o dalla scarsità degli
alimenti, ridisegna ogni volta il cerchio dell’anno»1.
In
questa prospettiva, la presenza di primizie vegetali (fave, agrumi)
sulla tavola del Santo, che sono simboli di fertilità, alludono alla
rigenerazione del cosmos assicurando una continuità naturale
e sociale; infatti, da sempre, le arance amare (cioè selvatiche),
utilizzate per allestire la tavulata, assumono un significato
simbolico di fertilità, ovvero quello di “contenitori di semi”.
In questo orizzonte, le scadenze calendariali delle feste di san
Giuseppe sono leggibili in chiave di chiusura e riapertura del ciclo
vitale secondo lo scenario simbolico incentrato proprio sugli
alimenti.
Gli
alimenti vegetali, presenti nelle tavole di san Giuseppe,
appartengono al livello agrario-ctonio, in quanto sono «“embrioni”
generati e cresciuti dal grembo della terra (come le fave verdi,
poste sulla vara del Patriarca, che in quanto semi della natura
muoiono e rinascono, assumendo in tal modo anche un significato
beneaugurante) a vario titolo dunque segni del ciclo della vita e
garanti della durata. Inoltre, il loro “circolare” tramite i
canali del dono tra gli uomini e con le entità sacrali, rigenera
periodicamente le interazioni su cui si fonda la stessa continuità
sociale»2.
La
tavola di san Giuseppe deve sempre ostentare frutta e verdura. Per
arricchire la tavola, si dispongono altri piatti a base di pesce come
le sarde, preparate in tantissimi modi: a beccafico, fritte, in
polpette, con la pasta.
In
genere, esente dal banchetto è la carne, poiché la festa ricade nel
periodo quaresimale in cui prevale il divieto di mangiarla, ma ciò è
dovuto anche alla poca disponibilità, in passato, di questo alimento
spesso assente nei banchetti rituali. Solo in alcuni paesi della
Sicilia, la carne è presente nelle tavole di san Giuseppe.
Altro
elemento importante e simbolo di fertilità è il fuoco, presente in
tutti i rituali delle feste di san Giuseppe come dimostrano le vampe
accese la sera della vigilia (18 marzo) in molte località siciliane.
Le vampe testimoniano un uso arcaico: «i falò su cui ardono le
offerte devozionali di legna, manifestano l’arcaica valenza della
catasta come ara, sulla quale consumare per combustione
l’offerta»3,
alimentare o suntuaria.
L’uso
cerimoniale del fuoco è largamente presente in tutta l’area
euro-mediterranea. Le cerimonie del fuoco si svolgono intorno ad
alcuni momenti del calendario rituale cristiano. Esse consistono in
un insieme di pratiche che procedono dall’accensione di uno o più
falò (vampe) alle processioni di torce, fino ai balli intorno al
fuoco4.
La
gente si sofferma lungamente intorno alle fiamme a mangiare e bere,
discutendo e salutando gli amici; ecco come un rito sacro diviene
momento di coesione sociale.
Dare e
recare legna per i falò significava assolvere ad una promessa (voto)
fatta al Santo.
Inoltre,
va osservata la consuetudine diffusa del consumo del cibo intorno
alla vampa, spesso preparato ritualmente.
«Qualsivoglia
sia il significato e la funzione primaria attribuibili al falò nei
diversi contesti, appare chiaro nel nostro caso, che il suo uso
rituale riflette una visione del mondo propria delle civiltà
agropastorali e delle loro peculiari modalità di discretizzare lo
spazio e il tempo. Abituati per millenni a vivere a stretto contatto
con la terra e da essa a trarre sostentamento, gli uomini hanno
sempre prestato attenzione alle periodiche trasformazioni della
natura, al succedersi delle stagioni, alla ciclica morte e rinascita
della vegetazione, al progressivo declinare e risorgere degli astri.
Hanno tentato di esercitare su questi fenomeni una qualche forma di
controllo e si sono adoperati pertanto attraverso complessi riti, a
garantire i passaggi e le trasformazioni di status della
natura. Il fuoco è chiamato a marcare con la sua presenza da un lato
l’eliminazione del tempo consumato, dall’altro l’aprirsi di un
tempo nuovo, sia in relazione al periodo festivo, sia in relazione al
tempo che vi farà seguito»5.
Le
feste caratterizzate dall’accensione di falò rituali possono
dunque essere intese come riti di passaggio, cerimonie dirette
a rifondare il ciclo dell’anno e con esso la vita stessa della
comunità e l’essere stesso dei suoi appartenenti6.
Intorno ai falò si assiste ad una esplosione vitale veicolata
attraverso le voci dei fedeli, che urlano il nome del Patriarca, il
suono dei tamburi, il dispendio alimentare, tutti fenomeni che
riproducono una atmosfera orgiastica. Come è stato osservato «gli
eccessi che rompono l’ordine naturale e sociale del quotidiano,
servono quindi a rinnovare e rigenerare il cosmos»7.
Nelle
feste di san Giuseppe la presenza del fuoco non si realizza solo
attraverso la vampa, ma anche attraverso i giochi di fuoco. «La
progressiva affermazione degli artifici pirotecnici in ambito
festivo, oltre che al loro indubbio valore spettacolare, è dovuta
certamente alle loro implicanze simboliche. I fuochi d’artificio
sono fuoco, luce e rumore e come tali si sono affermati nella
cerimonialità tradizionale»8.
Il
fuoco e il rumore celebrano la rifondazione del tempo e quindi
intervengono nel processo di cambiamento e trasformazione della
natura. Il produrre suoni di elevata intensità significa produrre
energia. Infatti, nella stagione estiva, la festa di san Giuseppe si
conclude sempre con eclatanti giochi pirotecnici che segnalano non
solo la fine dei festeggiamenti ma anche del ciclo agronomico.
«L’esplosione
mattutina di numerosi colpi di mortaio, l’alburata, marca
l’aprirsi del giorno di festa, e lo spettacolo pirotecnico ne segna
la conclusione. A questi momenti fondamentali si intercalano altre
esplosioni e giochi di colori. I fuochi pirotecnici sono sempre una
componente essenziale dello spazio tempo festivo, segnando e
qualificando gli episodi rituali che vengono animati e scanditi nel
loro svolgimento. Vengono sottolineati momenti apicali, fungendo da
indicatori di limiti spaziali e temporali che sono metafisici e
fisici»9.
La
realizzazione dei fuochi d’artificio, richiede un dispendio
notevole sia di tempo che di denaro. E’ solo attraverso la questua
e i fondi in denaro offerti dai comuni, che i paesi possono celebrare
la fine della festa attraverso eclatanti colori e suoni.
Lo
spettacolo pirotecnico ha assunto col tempo un ruolo sempre
crescente: «il Santo è stato dovutamente onorato solo se i fuochi
hanno superato quelli dell’anno precedente per quantità e
qualità»10.
Uno
spettacolo pirotecnico si articola in più momenti evidenziati dal
tipo e dai ritmi dei fuochi, ed ovviamente la durata dello spettacolo
è subordinata alla disponibilità finanziaria dei committenti. La
fase conclusiva dello spettacolo pirotecnico è la scarica (detta
anche masculiata): si sparano bombe di piccolo calibro, i
ritardi, ovvero bombe monocolori, in successione sempre più rapida.
Tra queste spacca e botta, lampi, farfalle, serpentine, si
incendiano in aria grazie alla spoletta, razzi a più colori
dall’effetto tridimensionale11.
I
fuochi d’artificio in quanto varianti espressive di una scomparsa e
ricomparsa di luce, colori e rumori, in prossimità dell’epilogo
della festa, equivalgono alla rappresentazione del caos che
muore con la rinascita dell’energia cosmica.
La
rigenerazione dello spazio avviene attraverso un’importante azione
cerimoniale: la processione. «Il corteo processionale carico del suo
più o meno complesso apparato simbolico di simulacri, stendardi,
costumi, suoni impone alla realtà circostante la sua presenza»12,
affinché possa
ri-sacralizzare lo spazio che nel corso dell’anno si è caricato di forze negative. La vara del Santo, è adornata con elementi vegetali (fave, uva e alloro) che permettono di ricondurre la cerimonia a celebrazioni di carattere agrario, che sembrano incentrarsi sulla celebrazione dei segni dell’abbondanza, di cui ho parlato precedentemente.
ri-sacralizzare lo spazio che nel corso dell’anno si è caricato di forze negative. La vara del Santo, è adornata con elementi vegetali (fave, uva e alloro) che permettono di ricondurre la cerimonia a celebrazioni di carattere agrario, che sembrano incentrarsi sulla celebrazione dei segni dell’abbondanza, di cui ho parlato precedentemente.
La
processione reca a braccio il fercolo, preceduto da tradizionali
fiaccole, che nei giorni di festa attraversa le vie principali del
centro urbano. In tal modo la processione può essere intesa come
un’assemblea culturale in cammino: la sua struttura è costituita
dal raduno della comunità locale in un cammino ordinato accompagnato
da canti e preghiere dietro alla vara del Santo, e diretti verso un
luogo che ne rappresenta la meta spaziale. L’atto di camminare
insieme risponde ad un bisogno primario di aggregazione, attraverso
il quale il gruppo acquista consistenza e unità.
«Le
processioni sono anche esibizione di forza virile (non a caso esse
venivano eseguite nelle piazze principali da giovani scapoli) e di
una azione rituale in funzione propiziatoria. In sostanza la morte e
la resurrezione di Dio sublimano la morte e la rinascita della
natura: questo è lo schema che sostiene le cerimonie dirette a
promuovere il corso del ciclo dell’anno, soprattutto nel momento
più delicato rappresentato dal risvegliarsi della primavera.
L’avvento della primavera ha da sempre costituito nelle civiltà a
prevalente economia agropastorale un momento di intense celebrazioni
tendenti a garantire la rifondazione del tempo e della vita»13.
La processione, nel cristianesimo e in altre religioni, è un rito
liturgico con funzione espiatoria e propiziatoria. Trascendendo il
significato liturgico viene a rappresentare il trionfo annuale delle
forze del cosmos sul caos. Ecco allora fare la comparsa,
unitamente a momenti esclusivamente penitenziali e di preghiera,
momenti non necessariamente legati alla cornice dell’ortodossia
cattolica. Ma, l’apoteosi del rituale resta il momento in cui il
simulacro del Santo viene sospinto verso l’alto dai fedeli che
acclamano il protettore per le grazie ricevute.
La
processione in occasione della festa di san Giuseppe è un’azione
rituale tra le più sentite fra i fedeli di Casteldaccia.
«Traslazione movimentata di persone e oggetti, simulacri, immagini,
da un luogo a un altro, dopo una percorrenza di varia misura, secondo
un itinerario per lo più immutabile. In quanto movimento reiterato e
codificato, spesso accompagnato da suoni, acclamazioni, la
processione ha un evidente valore vitalistico e di rigenerazione»14.
In
generale, «nelle feste la spazialità del sacro è assicurata dalla
sacralità dello spazio, cioè dalla sua espansione in tutto
l’orizzonte esistenziale attraverso una serie di operazioni
rituali. E’ evidente che la ragione della persistenza della
connessione tra riti collettivi sacralmente connotati e spazi
tradizionali, segnatamente la piazza, non è da addebitarsi a ragioni
di carattere pratico. Non è un problema di dimensioni fisiche ma
esito di precisi processi intellettuali. Le culture tradizionali
avvertono, infatti, in maniera significativa il senso del confine; il
sacro è sempre in luogo spazialmente circoscritto o circoscrivibile.
Esiste dunque un legame specifico fra un rito e il luogo in cui si
svolge, ed è questo il motivo per cui certi riti sono celebrati
sempre negli stessi luoghi; ciò non avviene per caso, e lo
stabilirsi di una tradizione è significativo»15.
Del
resto la piazza è un punto di intersezione delle coordinate civili,
economiche, religiose, spazio principale e necessario non solo della
costruzione urbana, ma anche della organizzazione sociale: un luogo
dove i valori e le aspirazioni della comunità si manifestano e
prendono corpo divenendo visibili, cioè pubblici, e dove ogni atto
espresso anche individualmente diventa poi corale e socialmente
significante16.
La
piazza, simbolicamente, rappresenta le ideologie di una tradizione
consolidata da anni e si carica della storia sociale politica e
artistica di una comunità: ecco come questo luogo urbano diventa uno
strumento di espressione di memorie e significati, soprattutto nei
riti che celebrano i Santi Patroni.
La
processione ha in sostanza l’effetto di riunire tutta la comunità
sospendendo, seppur se per uno spazio-tempo circoscritto, il
frazionamento reale o ideale del paese e dei suoi abitanti. La
processione è un momento di coesione e di solidarietà all’interno
della quale dal clero alle autorità civili, fino all’ultimo dei
fedeli, ciascuno è chiamato a fare la propria parte, a essere attore
del rito. Andare insieme pregando, non soltanto stimola la
partecipazione visiva, ma suggerisce anche che il valore del rito è
dato dall’amalgama religioso e sociale che esso riesce a creare.
Insieme a quelle protettive e sacralizzanti sono cioè evidenti le
funzioni di sostegno e coesione presenti nella processione. Nel
ripetere ogni anno gli stessi gesti i fedeli rifondano la propria
comunità, riconfermando nel contempo la propria appartenenza ad
essa. Così ne parla Ignazio E. Buttitta:
«riprodurre eventi, gesti o comportamenti già altra volta e altrove verificatesi, e riprodurli non solo nel senso in cui una immagine riproduce un oggetto o una persona, ma anche nel senso più forte di produrre di nuovo, iterare e reiterare, far sì che si verifichi di nuovo»17.
«riprodurre eventi, gesti o comportamenti già altra volta e altrove verificatesi, e riprodurli non solo nel senso in cui una immagine riproduce un oggetto o una persona, ma anche nel senso più forte di produrre di nuovo, iterare e reiterare, far sì che si verifichi di nuovo»17.
Lo
scopo delle processioni è dunque duplice: da un punto di vista
esclusivamente sacrale esse hanno la funzione di testimoniare che il
sacro non è confinato geograficamente in un determinato luogo ma è
capace di occupare, seppure temporaneamente, altre località; da un
punto di vista sociale, lo scopo è quello di rappresentare l’ordine
sociale tanto alla comunità stessa quanto agli osservatori esterni.
I rituali processionali, infatti, pur prefiggendosi lo scopo di
testimoniare la devozione di tutti i ceti e le classi di età, di
fatto ne confermano la necessaria esistenza. Mediante Confraternite e
gruppi i fedeli esibiscono il loro impegno devozionale, frutto della
loro forza economica e privilegi.
CAPITOLO II
CELEBRAZIONI A SAN GIUSEPPE: IERI E OGGI
Casteldaccia
è un piccolo comune agricolo in provincia di Palermo, posto su di un
poggio a ridosso della costa settentrionale tirrenica siciliana e
facente parte dell’antica e florida “Conca d’Oro”, come
testimonia la ricca presenza di agrumeti. Le sue origini risalgono al
5 gennaio 1737 quando, il Marchese Vincenzo Ignazio Abbate di
Lungarni fece la sua offerta per l’acquisto del detto luogo. Venuto
pertanto il Marchese di Lungarni in possesso di questo territorio,
suo primo pensiero fu quello di fondarvi un nuovo paese e ottenuta la
licenza regia, fondò il paese che fu prima detto Castellazzo e
poscia, pigliando occasione dalla presenza del castello e dal nome
della contrada, Accia, acciocchè fosse distinto da ogni altro borgo,
casale e contrada di ugual nome, si chiamò Castel d’Accia 18.
Il
piccolo paese, pur trovandosi di fronte al mare, ha sempre avuto una
prevalente e forte vocazione agricola, tanto che il suo sviluppo si è
orientato principalmente verso l’entroterra; inoltre, il clima mite
mediterraneo ed il terreno, hanno creato le condizioni ottimali per
le coltivazioni di ulivi, agrumi e vigne, che di fatto oggi
caratterizzano la base dell’economia del paese.
Tra le
tradizioni popolari che costituiscono una ricchezza importante per il
paese, la festa più importante dell’anno è quella dedicata al
Santo Patrono, san Giuseppe, festeggiata il 19 Marzo e la terza
domenica di Agosto.
Casteldaccia,
paese prettamente agricolo e regolato dal ciclo produttivo dei campi,
ha sempre considerato la festa di san Giuseppe un modo per
ringraziare il Santo Patrono per il buon raccolto, per propiziare una
buona annata. Attraverso varie testimonianze, ho tentato di far
emergere i caratteri più antichi di questa tradizione, gli elementi
costitutivi le molteplici fasi della festa.
Durante
il periodo primaverile, a Casteldaccia la celebrazione del Santo
Patrono (il 19 Marzo), detta anche Solennità di san Giuseppe, è
realizzata tramite l’osservanza di un protocollo ben delineato che
presenta quattro momenti: la novena, la tavolata, la
vampa ed infine i fuochi d’artificio.
La
novena è un’attività di devozione cattolica che consiste nel
recitare preghiere ripetute per nove giorni consecutivi. Il suo nome
proviene dal latino novenus (nono) e sembra che l’origine
del termine sia da ricercare nel nuovo testamento, quando Maria e gli
Apostoli dopo l’ascensione di Gesù Cristo, perseverando in
preghiera per nove giorni, hanno atteso e ricevuto lo Spirito Santo.
Già
dagli anni ‘50-‘60, la novena a Casteldaccia è celebrata da un
officiante, scelto e invitato appositamente per la solenne occasione
dal Comitato di san Giuseppe. La celebrazione della novena ha inizio
il 10 marzo alle ore 18.00 nella Chiesa Madre, quando l’officiante
intrattiene i fedeli con omelie incentrate sulla figura del Santo
Patrono. Questo momento di preghiera, che si ripete per i successivi
otto giorni, cantato dalle donne, è sempre anticipato dalla
recitazione del rosario in dialetto dedicato a san Giuseppe.
Rosario
di san Giuseppe:
San
Giuseppe giusto e santo
n’testa
purtati lu Spiritu Santu
siti
un’omu di tantu onuri
in
brazza purtati lu Salvaturi.
Siti
spusu di Maria
prutiggiti
l’anima mia
pi
stu bamminu c’aviti in brazza
cunciditimi
sta grazia.
San
Giuseppe nunn’abbannunati prima
strofa
fra
li bisogni e li nicissitati
Maria
è na Rosa Giuseppe è lu gigliu seconda strofa
datici
aiutu riparu e cunsiglu.
(San
Giuseppe giusto e santo/ in testa portate lo Spirito Santo/ siete un
uomo di tanto onore/ in braccio portate il Salvatore./ Siete sposo di
Maria/ proteggete l’anima mia/ per questo bambino che avete in
braccio/ concedetemi questa grazia./ San Giuseppe non ci abbandonate/
fra i bisogni e le necessità/ Maria è una Rosa Giuseppe è il
giglio/ dateci aiuto riparo e consiglio).
Il
rosario inizia quando, la voce solista, accompagnata dall’organo,
intona la prima strofa mentre tutti gli altri in coro rispondono
cantando la seconda; poi, quando si conclude il primo gruppo di 10
grani (posta), la persona che ha iniziato con i primi due versi canta
la seconda strofa mentre il gruppo risponde con la prima. Giunti al
momento in cui bisogna celebrare il mistero, tutti in coro cantano:
“San Giuseppe giusto e santo/ n’testa purtati lu Spiritu Santu
/siti un’omu di tantu onuri/ in brazza purtati lu Salvaturi/ siti
spusu di Maria/ prutiggiti l’anima mia/ pi stu bamminu c’aviti in
brazza/ cunciditimi sta grazia”.
La
celebrazione della novena è affidata ad un officiante estraneo che
incentra il suo sermone sulla figura di san Giuseppe, uomo schivo e
semplice, che occupa un ruolo molto importante nell’iconografia e
nella storia della religione cristiana.
La
novena si ripete per nove giorni, dall’10 sino al 18 marzo quando
si conclude con la messa delle 19.30.
Sempre
il 18 marzo, alle 16.00, il Comitato di san Giuseppe insieme alla
banda musicale, percorre le strade del paese per la tradizionale
questua, donando in cambio delle offerte in denaro e in natura, i
“santini” del Santo Patrono, immaginette raffiguranti il Santo
che, dopo essere state benedette assumono una funzione
magico-protettiva, qualora vengono affisse dietro la porta di casa o
sopra il capezzale e nei luoghi di lavoro; oppure le si portano
addirittura sulla persona come un amuleto o vengono poste sulle parti
malate per invocare, con preghiere e scongiuri, la guarigione.
La
festa vera e propria, ha inizio il 18 marzo con la questua, «azione
cerimoniale caratterizzata da una raccolta itinerante di cibo e di
denaro»19.
Terminata
la raccolta delle offerte, alle 18.30, nella Chiesa Madre, si celebra
il canto dei Primi Vespri Vigiliari, seguito dalla messa officiata
dal parroco che successivamente porge al presidente del comitato una
fiaccola, con la quale verranno accese tutte le altre fiaccole della
popolazione, che in corteo giunge in via Ugo La Malfa, dove è
allestita sia la tavolata che la vampa.
La
tavolata è momento di aggregazione sociale, infatti vede la
collaborazione del vicinato, dei parenti, di amici e di tutta la
comunità.
L’uso
di fare la tavolata ha radici antiche. Giuseppe Pitrè, a
proposito della consuetudine in Sicilia di fare banchetti in onore di
san Giuseppe in favore dei poveri, così scriveva: «san Giuseppe è
dunque il Santo tutelare dei poveri, degli orfani, di chi volge in
grandi strettezze di vita. I beni che la Provvidenza manda non
vengono se non la mercé di lui, caritatevole, soccorrevole
quant’altri mai. Ora da questa particolar prerogativa può essere
nato l’uso del banchetto detto di san Giuseppe e di altri usi
popolari nel giorno 19 marzo. Il banchetto si fa da tutti i siciliani
con più o meno di pompa, con maggiore o minore lautezza e profusione
di vivande»20.
Il
banchetto di san Giuseppe a Casteldaccia è allestito all’aperto in
una delle strade principali del paese. La tavolata è una
tavola vera e propria, imbandita con tantissimo pane «impastato
secondo speciali forme, molte delle quali rimandano al simbolismo
liturgico e a tratti iconografici o agiografici del Santo: a forma di
croce, di cuore, di bastone, di palma, di rosa»21,
con frutta, ortaggi e tanti altri prodotti di stagione, ed è
incapsulata in una struttura vegetale, una capanna, costruita con
tubi Dalmine, tavole, canne e funi che poggia su quattro colonne ed è
fornita, dunque, di tre pareti di cui due laterali ed una frontale.
In quest’ultima è allestito un piccolo altare in cui è posto il
quadro di san Giuseppe adornato da arance amare, limoni, fiori,
nastri e palme, tutti elementi utilizzati anche per allestire la
capanna che viene costruita 2-3 giorni prima o addirittura una
settimana prima. Tutti gli elementi vegetali e floreali, utilizzati
per abbellire la capanna, evidenziano il simbolismo antico della
natura, sono simbolo di fertilità. Come evidenzia
F. Giallombardo, «uno dei tratti costanti della festa di san Giuseppe - la ricerca di primizie vegetali (frutta e ortaggi) da esibire in bella mostra sulle mense - non è quindi finalizzata solo ad un effetto estetico», poiché «le primizie costituiscono un segnalatore emblematico dei ritmi stagionali, le ritroviamo perciò anche in agosto o in settembre col medesimo valore augurale di immagini concentrate di fertilità. Come le fave verdi che non casualmente adornano il simulacro del patriarca in molte processioni»22. Come sottolinea l’autrice, «si tratta, com’è evidente, di simboli orientati a suggerire l’idea di una energia vitale concentrata, alla cui fruizione in chiave collettiva, e secondo norme cerimoniali, molti gruppi continuano a affidare la garanzia della continuità naturale e sociale»23.
F. Giallombardo, «uno dei tratti costanti della festa di san Giuseppe - la ricerca di primizie vegetali (frutta e ortaggi) da esibire in bella mostra sulle mense - non è quindi finalizzata solo ad un effetto estetico», poiché «le primizie costituiscono un segnalatore emblematico dei ritmi stagionali, le ritroviamo perciò anche in agosto o in settembre col medesimo valore augurale di immagini concentrate di fertilità. Come le fave verdi che non casualmente adornano il simulacro del patriarca in molte processioni»22. Come sottolinea l’autrice, «si tratta, com’è evidente, di simboli orientati a suggerire l’idea di una energia vitale concentrata, alla cui fruizione in chiave collettiva, e secondo norme cerimoniali, molti gruppi continuano a affidare la garanzia della continuità naturale e sociale»23.
Il
Comitato di san Giuseppe, grazie ai proventi ricavati dalla questua,
offre un’abbondante banchetto. Tale pratica rituale costituisce un
tratto centrale delle celebrazioni a san Giuseppe in tutta la
Sicilia.
Alle
ore 20.30 il corteo giunge sino al luogo dove è stata allestita la
tavolata, si accende la vampa (falò) e mentre la legna arde,
ha inizio la distribuzione del cibo alla gente. Piatto centrale è il
minestrone di san Giuseppe, un miscuglio di ortaggi, preparato
ogni anno dal Comitato; si tramanda che il minestrone anticamente era
un cibo povero che san Giuseppe offriva appunto ai poveri. Oltre al
minestrone, altri sono i piatti tradizionali della Sicilia che
vengono preparati per questo speciale giorno, come le panelle, la
pasta con le sarde, le sfinci, la pasta con i broccoli e le
polpette di uova; fra le pietanze risulta assente a Casteldaccia la
carne, in quanto la festa di san Giuseppe cade nel periodo
quaresimale, periodo di penitenza e astinenza.
La
tavolata, a Casteldaccia, ha origini recenti. Il Comitato di
san Giuseppe nel 2005 decise infatti di riprendere quelle tradizioni
che sin dall’antichità si tramandavano, allestendo nuovamente un
banchetto per la popolazione. Non ci sono informazioni che attestano
il momento in cui questa pratica si sia interrotta. Secondo gli
anziani, intorno agli anni ‘50-‘60 la tavolata come
rituale religioso aveva luogo solo ed esclusivamente per il Giovedì
Santo nella piazza principale del paese; altre testimonianze, invece,
accennano ad una tavolata allestita all’interno delle mura
domestiche, quando «all’interno delle case la gente entrava e
mangiava». Infatti, tra gli anni ‘30-‘40, la tavolata si
svolgeva all’interno dei magazzini appartenenti alle famiglie
benestanti del paese che per l’occasione allestivano delle tavole
lunghe 3 metri. Innanzitutto, il 18 Marzo era il giorno dedicato solo
alla celebrazione della messa vespertina e alla vampa, mentre il 19
Marzo era il giorno della tavolata e della processione. La
mattina del 19 Marzo, davanti alla Chiesa Madre, veniva distribuito
il pane benedetto ai cittadini, che a loro volta lo distribuivano a
parenti e amici (intorno al 1945-50, il pane veniva distribuito al
mulino Piraino, era abitudine della famiglia Piraino preparare enormi
quantità di pane per distribuirlo ai bambini del paese); in seguito,
il prete giungeva nei vari magazzini, in cui erano state allestite le
tavolate, per benedire l’altare e i cibi già predisposti
sulle tavole. Era consueto preparare per l’occasione il minestrone
di san Giuseppe (fave secche, fagioli, lenticchie, cavolfiore,
finocchietti selvatici, cavoli spezzettati e castagne secche), cardi
e broccoli in pastella, carciofi, baccalà, frittate di uova e
asparagi. Le mura dei magazzini venivano addobbate con coperte di
ciniglia o di seta, o da vari capi di biancheria del corredo
familiare. Sulle coperte dominava il quadro di san Giuseppe o della
Sacra Famiglia, ai cui lati stavano appesi dei nastri con i soldi che
dovevano essere donati ai Santi. Infatti, per l’occasione venivano
scelte tre persone, un uomo, una donna e un bambino a cui spettava il
compito di rappresentare la Sacra Famiglia e di sedere al centro
della tavolata. Essi consumavano per primi le pietanze, in quanto
«entità sacrali»24,
e poi ne offrivano a tutti i presenti. Inoltre, i cibi venivano anche
spartiti a tutti coloro che avevano partecipato e collaborato
attivamente a questo giorno di festa.
Oggi,
a pochi metri dal luogo in cui è allestita la tavolata, viene
costruita la vampa, una struttura conica fatta con legna accatastata
che raggiunge i 10-15 metri di altezza. Sono tutti residui della vite
che viene potata in questo periodo. I cittadini casteldaccesi al
posto di bruciarla la accatastano in fasci e chiamano il Comitato che
incarica un uomo fidato che si occupi di raccogliere tutta questa
legna e di portarla nel luogo in cui verrà allestita la vampa. I
membri del Comitato, inoltre «intervengono attivamente al momento di
preparare la catasta che, soprattutto se grande e composita richiede
molta cura nella disposizione della legna. Dalla tecnica di
costruzione dipende peraltro anche la maggior durata della fiamma »25.
La
sera del 18 marzo, quando il corteo raggiunge la via Ugo la Malfa, i
membri del comitato danno fuoco alla vampa ri san Ciuseppi
e si dà inizio alla distribuzione e alla consumazione delle pietanze
preparate nei giorni precedenti alla festa dagli uomini e dalle donne
del comitato di san Giuseppe, mentre la legna della vampa arde
accompagnata dal suono dei tamburi. In tale circostanza, si dice:
“s’a fiamma acchiana ritta, l’annata veni bona; s’a fiamma
nun acchiana ritta, l’annata veni tinta”(se la fiamma
sale dritta, la stagione è buona; se la fiamma non sale dritta, la
stagione è cattiva). Come è stato osservato, «intorno al falò
ruota tutto un universo mitico-rituale, un insieme di credenze e
comportamenti connessi direttamente al fuoco o al Santo per cui si
accende; si tratta del perenne ripetersi di atti e gesti millenari
con i quali l’uomo si rapporta al sacro tributando onori a una
realtà trascendente da cui sente dipendere il proprio benessere
fisico e materiale, la sua stessa esistenza»26.
La notte della vampa, per il casteldaccese, è un momento di
grande aggregazione, che vede gli adulti impegnati a tenere lontano
dal fuoco i più piccoli, mentre la grande folla si riunisce per
guardare affascinata la propria legna che arde. Con il fuoco si vuole
scacciare il freddo e la magra stagione, salutando l’arrivo della
primavera e la imminente stagione dell’abbondanza.
Oggi a
Casteldaccia si assiste ad un’unica vampa, come negli anni ‘30-‘40
quando una settimana prima la vigilia di san Giuseppe, tutti i
contadini del paese raccoglievano la legna per portarla poi nel luogo
in cui si sarebbe allestita. Intorno agli anni ‘50-‘60 alla fine
della messa vespertina si bruciavano diversi falò organizzati
privatamente dai cittadini nei vari quartieri del paese e questi
ardevano tra le grida e le invocazioni dei fedeli che con gioia
gridavano: “viva san Ciusippuzzu”. La vampa è,
innanzitutto, il simbolo della luce. E’ il simbolo della presenza
di Cristo, perché la luce simboleggia Cristo nella cristianità;
inoltre, a Pentecoste lo Spirito Santo è sceso sugli apostoli e i
presenti sotto forma di lingue di fuoco, quindi il fuoco rappresenta
non solo la presenza di Cristo, ma anche dello Spirito Santo. La
vampa di san Giuseppe non viene assunta come segno propiziatorio, ma
ha lo scopo di simboleggiare la presenza di Cristo nella vita di san
Giuseppe, che è uomo pieno di Spirito Santo ed è colui che lo porta
“in festa”.
Come
evidenzia Ignazio E. Buttitta, «Il fuoco con il suo ricco
simbolismo, rinvia a celebrazioni di rifondazione del tempo volte a
determinare la rigenerazione del cosmos naturale e sociale. In
quanto simbolo di rigenerazione il fuoco detiene un valore
purificatorio»27.
La funzione del fuoco è quindi quella di distruggere i mali e le
colpe accumulate nel periodo precedente per poter rifondare un nuovo
tempo.
«In
epoca romana il primo mese dell’anno era Marzo, quando il sole
appare ancora spento, si accendevano i fuochi per dargli forza e
calore. Nel 1379 i fuochi vennero banditi perché ritenuti di origine
pagana, ma la Chiesa si oppose a queste decisioni collocando la data
della vampa al 18 marzo, vigilia di san Giuseppe, e riconsegnandola
al calendario espressamente come rito cristiano. I falò, oggi ancora
accesi, hanno motivo di esistere per diverse ragioni, non ultima
quella di risvegliare la natura secondo cicli stagionali e della
rigenerazione cosmica, ma assumono anche carattere lustratorio e
apotropaico, qualora servono ad allontanare gli spiriti maligni e le
avversità stagionali»28.
Il
giorno 18 marzo si conclude quando le fiamme della vampa smettono di
ardere e i cittadini fanno rientro nelle proprie abitazioni.
L’ultimo giorno di festa è il 19 Marzo, detto anche
Solennità di san Giuseppe . La mattina del 19 Marzo alle 07.00 il
paese viene svegliato dall’alburata. In questo giorno
vengono celebrate tre messe domenicali durante le quali viene
distribuito il pane benedetto, segno di prosperità e di comunione
per tutti i fratelli che venerano il proprio Patrono. Durante il
giorno, importante è la messa delle 11.30, preceduta dal suono dei
tamburi locali e della banda musicale in giro per il paese, alla
quale partecipano non solo i cittadini ma anche le autorità civili e
militari, e per questo speciale evento viene invitato un vescovo per
officiare la messa solenne, poiché messa cantata. Il pomeriggio,
intorno alle 18.00, il comitato percorre le strade del paese per
raccogliere nuovamente le offerte. Alle 19.30 si celebra un’altra
messa e conclusa questa ultima, si conclude anche questo giorno di
festa.
Prima
del 1997, alla fine della messa delle 19.30, si svolgeva la
processione e sulla vara del Santo si mettevano le fave; in quanto, a
marzo per san Giuseppe avviene la prima raccolta delle fave e i
contadini dicono sempre che le fave si raccolgono il giorno di san
Giuseppe come forma augurale. In tal modo la festa di marzo
rappresenta l’inizio del ciclo agronomico, in cui la natura esprime
tutta la sua energia per produrre.
Sino
al 1987 la vara durante la processione veniva portata a spalla da
volontari, dal 1987 al 1997 la vara veniva trainata e solo in seguito
si decise di fare la processione solo ed esclusivamente per la festa
di agosto e non più due volte l’anno.
Se la
festa di marzo rappresenta l’inizio del ciclo agronomico, la festa
di agosto, festeggiata la terza domenica del mese, ne rappresenta la
fine; infatti, in tempi passati la celebrazione di tale festa
coincideva non solo con l’apertura della stagione venatoria della
caccia ma anche con la fine dell’attività di produzione agricola e
rappresentava l’occasione utile per ringraziare il Santo del
raccolto annuale. Tuttavia, il carattere agricolo di tale
manifestazione ha subito un inesorabile declino sino a scomparire del
tutto con il passare degli anni. Oggi i festeggiamenti di Agosto,
annunciati dallo sparo dei mortai durano tre giorni: sabato domenica
e lunedì.
Il
primo giorno di festa la banda musicale percorre le vie del paese ed
annuncia l’inizio di quello che è considerato il momento di
maggiore interesse: “la sfilata dei cavalli”.
La
domenica è sempre dedicata alla “processione”. Il
simulacro ligneo viene portato a spalla da quaranta giovani per le
vie del paese al grido di “viva san Ciusieppi chi stivali”,
a causa delle calzature con le quali l’artista, che ha realizzato
il simulacro, ha voluto rappresentare il Santo. Durante le
processioni vengono effettuate le tradizionali “volate degli
angeli”. Due bambine, sospese per aria tramite l’ausilio di
apposite funi, recitano poesie per il Santo sulla sommità della
vara. La processione si conclude con il rientro del simulacro nella
Chiesa Madre. In tale contesto, il momento conclusivo della festa è
rappresentato dallo sparo di eclatanti giochi d’artificio e
dall’esecuzione di un concerto pensato e strutturato appositamente
per l’occasione.
I
festeggiamenti di Agosto rappresentano un motivo di grande interesse
per i tanti casteldaccesi emigrati negli Stati Uniti che hanno
mantenuta viva la devozione per il loro Santo Patrono ritornando a
Casteldaccia per la festa del Santo Patrono; inoltre, degni di nota
sono i festeggiamenti realizzati a Chicago in onore a san Giuseppe.
I
preparativi per la festa di agosto iniziano durante il mese di aprile
quando il parroco, il presidente del Comitato e il sindaco si
riunivano per decidere l’organizzazione della festa. Dopodiché i
dubitati, devoti del Santo, che costituiti in comitato erano
nominalmente dipendenti dalla Chiesa, si impegnavano a raccogliere i
fondi girando per le vie del paese. In passato, la questua si
svolgeva nel mese di giugno, mese di raccolta del grano; infatti,
alla fine della trebbiatura, il frumento, che era stato donato dai
contadini per la questua, veniva portato in giro, sui muli o sui
cavalli, per le vie del paese dai dubitati; in seguito, il
frumento raccolto veniva portato ai mulini e venduto, il ricavato era
destinato esclusivamente alla festa.
Oggi
la realizzazione della festa è curata interamente dal “Comitato
Festeggiamenti di san Giuseppe” (costituito legalmente nel 1999).
Tuttavia oggi, la festa di agosto presenta caratteristiche diverse
rispetto ai festeggiamenti celebrati sino al 1999; infatti, in
passato evento importante era la corsa dei cavalli, sostituita
in seguito da una sfilata di cavalli.
La
corsa dei cavalli risale al 1940 e si svolgeva sia il sabato che la
domenica pomeriggio. I cavalli iniziavano la loro corsa partendo dal
“fossato”, l’odierna via Clemente, e arrivavano in piazza
Matrice, dopo aver percorso tutta la via Lungarni, per entrare nel
baglio del castello del Duca di Salaparuta. Il vincitore della
competizione vinceva un palio con raffigurata l’immagine di san
Giuseppe ed un premio in denaro. Solitamente i cavalieri che
partecipavano alla corsa indossavano delle maglie con un medaglione
d’argento con l’immagine di san Giuseppe.
Successivamente,
la pericolosità, l’incolumità del pubblico e il difficile
controllo da parte delle forze dell’ordine, fecero sì che il
prefetto ne vietasse lo svolgimento.
L’ultima
corsa dei cavalli risale al 22-23 agosto 1999.
La
mattina del sabato alle 07.00 il sonno degli abitanti viene
interrotto dal rumore dell’alburata, esplosione mattutina di
numerosi colpi di mortaio, per annunciare l’inizio della festa.
Alle 10.00 sino alle 12.00, la banda musicale insieme ai tamburi
percorre le vie del paese. Il pomeriggio, dalle 17.00 alle 19.00, è
dedicato alla sfilata dei cavalli, accorrono cavalli da tutte le
province di Palermo, si conta la partecipazione di 90-120 cavalli. I
cavalli effettuano un percorso indicato: partendo dalla via Ugo la
Malfa, giungono in piazza Matrice dove vengono presentati uno alla
volta a suon di musica. Conclusa la sfilata risalgono per le vie del
paese giungendo al luogo da cui erano partiti. Giunti in via Ugo la
Malfa, la popolazione assiste e partecipa a giochi equestri e a premi
che si concludono con uno spettacolo musicale nella piazza principale
del paese.
Il
secondo giorno inizia sempre con l’alburata delle 07.00,
alle 10.00 la banda musicale percorre le strade del paese e alle
11.30 si celebra la messa solenne, officiata da un vescovo. Conclusa
la messa nelle piazza principale del paese si sparano i mortaretti.
Il pomeriggio è sempre momento di intrattenimento, un gruppo
folcloristico gira per le vie del paese per animare la popolazione in
attesa della processione. Alle 19.30 ha inizio la messa officiata dal
parroco e alle 20.30 la vara del Santo Patrono, portata a spalla da
40 fedeli, esce dalla chiesa. La processione percorre tutti i
quartieri principali ed effettua due fermate ogni due strade per
consentire ai portatori di riposare, considerato il peso della vara.
Una prima fermata importante è davanti il municipio, dove il sindaco
aspetta la vara del Santo per onorarlo con un omaggio floreale;
subito dopo, la processione giunge in via Re di Puglia davanti la
casa del presidente del Comitato, nella quale si trova il quadro di
san Giuseppe esposto solennemente. Si tratta di un quadro che ha
circa 150 anni e raffigura san Giuseppe con il bambino Gesù, la sua
cornice è fatta interamente di lampade e viene esposto solennemente
su di un altare sfarzoso nella casa del presidente aperta alla visita
dei fedeli durante i giorni di festa. Davanti la sua casa il
presidente del comitato onora il Santo con un omaggio floreale e
subito dopo a circa un metro la vara si accosta nelle case dove si
effettua la volata degli angeli: due bambine, sospese in aria tramite
l’ausilio di funi, recitano una preghiera in onore del Santo
Patrono e rappresentano gli angeli che dal cielo scendono sulla terra
per implorare l’intercessione di san Giuseppe verso la comunità
casteldaccese.
Preghiera
popolare recitata durante la volata degli angeli:
- Te, o Giuseppe celebrino le schiere celesti,
te
esaltino i cori dei cristiani,
perché
tu glorioso per grandi meriti,
fosti
unito con casto legame
alla
Santa e Augusta Vergine.
- Quando tu scorgi la sposa
Incinta
di santa prole
e
il dubbio il cuore ti angoscia,
un
Angelo ti rivela che il Bambino
è
il dolce frutto del Santo Spirito.
- Tu il neonato Signore al petto stringi
e
profugo lo segui nella terra d’Egitto;
e,
quando a Gerusalemme lo smarrisci,
lo
cerchi e lo ritrovi tra i Dottori nel Tempio,
tramutando
il pianto in gioia.
- Nell’umile casa di Nazareth
Gesù
compie i desideri del Padre,
Maria
compie i doveri di madre e di sposa:
Tu
entrambi custodisci e assisti
In
umile silenzio e con immenso amore.
- Oh sommamente felice, oh sommamente beato,
perché
insieme ti hanno vegliato Gesù e la Vergine
nell’ora
suprema della morte,
sicché
col placido sonno giungesti all’eterna dimora
per
cingere il capo della corona di gloria.
- Tu che ora abiti nell’alta sede del cielo,
accanto a Maria tua eccelsa sposa e nostra Madre,
accanto a Gesù, Figlio di Dio e nostro Fratello,
accogli la nostra lode,
ascolta la nostra preghiera.
- Salve Giuseppe di Nazareth, figlio di Davide,
uomo giusto,casto e pio,
fedelissimo alla volontà salvifica di Dio:
per la missione che tu hai compiuto
nella vita di Gesù, il Cristo, e di Maria,
per le tue grandi ed umili virtù,
con gioia la chiesa ti dichiara e ti invoca
suo Protettore e Patrono.
- Oh beato San Giuseppe,
per Gesù Figlio di Dio e nostro Fratello,
per Maria, tua castissima sposa e nostra Madre,
accogli la nostra lode,
ascolta la nostra preghiera.
- Oh amatissimo San Giuseppe,
Patrono del nostro paese,
proteggi le nostre famiglie,
custodisci i nostri papà,
veglia sugli ammalati e i moribondi,
illumina i nostri governanti,
veglia su tutta la Chiesa,
custodisci il lavoro delle donne e degli uomini,
soccorrici nelle nostre necessità,
intercedi per noi presso il Signore.
San Giuseppe prega per noi.
Successivamente
la processione giunge in Via Comiso dove si effettua una seconda
volata degli angeli in cui viene recitata la stessa preghiera.
La
volata degli angeli non ha origini casteldaccesi in quanto la sua
origine è da rintracciare ad Altavilla Milicia, dove nacque per la
prima volta; in seguito, questa tradizione fu adottata da un altro
paese, Baucina, e solo a partire dai primi del ‘900 si è svolta
anche a Casteldaccia, ne sono testimonianza alcune fotografie
piuttosto antiche.
Conclusasi
l’ultima volata degli angeli, la processione effettua altre brevi
fermate per giungere in piazza Matrice. Durante la processione la
gente dona fiori, soldi e stende le lenzuola dai balconi come simbolo
di accoglienza.
Giunto
san Giuseppe dinanzi la chiesa madre, tutte le bambine, che nei mesi
precedenti la festa si erano preparate per la volata degli angeli,
recitano una preghiera in onore del Santo. Subito dopo il coro delle
bambine, segue l’omelia del parroco che esorta i fedeli a seguire
l’esempio di san Giuseppe. L’omelia si conclude con i fuochi
d’artificio sparati sul sagrato della chiesa mentre san Giuseppe,
tra le grida e le invocazioni dei fedeli, rientra in chiesa.
Secondo
alcune testimonianze risalenti al 31 Agosto del 1924, la domenica del
mese venivano allestiti ai lati della piazza due “palchetti”.
Infatti, dopo la processione e il rientro della vara in chiesa, due
orchestre musicali occupavano tali “palchetti” per intrattenere i
fedeli con opere di Donizetti, Rossini, Bellini e Mascagni, sino a
conclusione di quest’ultimo giorno di festa.
Il
terzo giorno di festa ha inizio con l’alburata
delle 07.00; il pomeriggio la banda musicale insieme ai tamburi
percorre le strade del paese; la sera intorno alle 22.00 il paese è
animato dal concerto di un cantante di rilievo nazionale. Dopo il
concerto segue il momento più atteso dalla popolazione: l’esplosione
dei giochi pirotecnici. «Oltre che luce i fuochi pirotecnici sono
rumore, fracasso, amplificazione di quegli spari festivi che
caratterizzano le feste di fine anno e non solo. Tutto questo
apparato di fuoco e rumore è strumento eloquente di un rito di
purificazione ed espulsione che prelude all’instaurarsi di un tempo
rinnovato, di un cosmo rigenerato»29;
in tal modo, i giochi di fuoco rappresentano il momento conclusivo
della festa e rinviano alla rifondazione di un cosmos
naturale e sociale.
NOTE
CAPITOLO I
1) G. Pitrè, Feste patronali in Sicilia, Clausen, Palermo 1900, p. 441.
2) A. Buttitta, Dei segni e dei miti. Una introduzione alla
antropologia simbolica, Sellerio, Palermo 1996, p. 262.
3) Ivi, p. 263.
4) F. Giallombardo, Festa orgia e società, Flaccovio, Palermo 1990, p. 14.
5) A. Buttitta, Dei segni e dei miti. Una introduzione alla antropologia simbolica, Sellerio, Palermo 1996, pp. 7-8.
6) F. Giallombardo, Festa orgia e società, Flaccovio, Palermo 1990, p. 17
7) Ivi, pp. 18-19.
8) Ivi p. 24.
9) Ibidem.
10) Ivi, p.43.
11) Ivi, pp. 150-151.
12) Ivi, pp. 117-118.
13) Ivi, p. 119.
14) Ivi, p. 147.
15) Ivi, p. 149.
16) F. Giallombardo, La tavola l’altare la strada. Scenari del cibo in Sicilia, Sellerio, Palermo 2003, p. 56.
17) Ibidem.
18) Ivi, p.79.
19) A. Buttitta, Dei segni e dei miti. Una introduzione alla antropologia simbolica, Sellerio, Palermo 1996, p. 255.
CAPITOLO II
20) Giallombardo, La tavola l’altare la strada. Scenari del cibo in Sicilia, Sellerio, Palermo, 2003, p. 35.
21) Ivi, p. 66.
22) Ivi, p. 53.
23) I. E. Buttitta, La memoria lunga. Simboli e riti della religiosità tradizionale, Meltemi, Roma 2002, p. 139.
24) Ivi, p. 160.
25) Cfr. Van Gennep, I riti di passaggio, Boringhieri, Torino 1981, p. 92.
26) F. Giallombardo, La tavola la strada l’altare. Scenari del cibo in Sicilia, Selelrio, Palermo 2003, p. 55.
27) I. E. Buttitta, La memoria lunga. Simboli e riti della religiosità tradizionale, Meltemi, Roma 2002, p. 173.
28) Ivi, p. 165.
29) Ivi, p. 166.
30) I. E. Buttitta, op. cit., p. 179.
31) Ivi, p. 215.
32) Ivi, p. 93.
33) Ivi, p. 213.
34) Ivi, p. 214.
35) Ibidem.
36) Ivi, pp. 216-217.
37) F. Nicotra, “Dizionario illustrato dei Comuni Siciliani”, 1907, p. 305.
38) F. Giallombardo, Festa orgia e società, Flaccovio, Palermo 1990, p. 25.
39) G.Pitrè, Spettacoli e feste popolari siciliane, Pedone Lauriel, Palermo 1881, p. 230.
40) I. E. Buttitta, Le fiamme dei Santi. Usi rituali del fuoco in Sicilia, Meltemi, Roma 1999, p. 62.
41) F. Giallombardo, La tavola l’altare la strada. Scenari del cibo in Sicilia, Sellerio, Palermo 2003, p. 57.
42) Ivi, pp. 43-44.
43) Ivi, p. 67.
44) I. E. Buttitta, Le fiamme dei Santi. Usi rituali del fuoco in Sicilia, Meltemi, Roma 1999, p. 57.
45) Ivi, p. 7-8.
46) I. E. Buttitta, La memoria lunga. Simboli e riti della religiosità tradizionale, Meltemi, Roma 2002, p. 169.
47) R. Di Miceli, San Giuseppe, Vita, culto e tradizioni a Cianciana, Geraci, Agrigento 2006, p. 32.
48 I. E. Buttitta, La memoria lunga. Simboli e riti della religiosità tradizionale, Meltemi, Roma 2002, p. 170.
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