di Pietro Simone Canale
La vita del soldato – Prima Parte
Quella del soldato casteldaccese è la vicenda dei POW (Prisoners of War), finora poco studiata, sebbene esistano importanti opere storiografiche su di essa e un’interessante memorialistica di coloro che, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, ebbero la fortuna di rientrare in Italia dalla prigionia.
Il fenomeno dei POW non deve essere confuso però con quello degli IMI (Internati Militari Italiani) rinchiusi nei lager nazisti, poiché diverse sono le loro caratteristiche.[2]
La triste storia, qui riportata, è parte della storia militare della Seconda guerra mondiale, ma è nello stesso tempo un piccolo contributo alla storia sociale italiana del Ventennio ed in particolare del Meridione sotto la dittatura. Quella di Minneci è uno dei tanti frammenti di storia collettiva.[3]
Ricostruire la sua vicenda personale non è stato semplice, poiché i documenti in possesso non sono molti e le informazioni che da questi si ricavano sono poche e parziali. Tuttavia, si è fatto ricorso alle opere storiografiche sul fenomeno e alle testimonianze edite di chi ha vissuto in quegli anni la stessa sorte e la stessa prigionia, al fine di rendere più comprensibile la tragedia umana non solo del militare, ma di tutti i soldati italiani catturati dagli alleati. Inoltre, è possibile consultare le trascrizioni delle lettere e delle cartoline inviate dal soldato alla famiglia al seguente link Documenti
Giuseppe Minneci nacque il 24 luglio 1903 a Casteldaccia in un’umile famiglia contadina. Assolvé i suoi obblighi di leva nel 1923 nel 12° Reggimento Artiglieri da Campagna a Capua in provincia di Caserta. Venne quindi congedato il 10 settembre 1924 con «dichiarazione di aver tenuto buona condotta e di aver servito con fedeltà e onore».[4] Dopo il ritorno a Casteldaccia lavorò come bracciante e operaio. Mise su famiglia, sposò Giuseppa La Spisa ed ebbe tre figli: Maria, Pietro e Giuseppina. La sua vita si svolse tra la campagna e la via Naurra.
Giuseppe Minneci durante il servizio militare di leva |
La situazione economico-sociale italiana durante il Ventennio, in particolare nel Meridione, mise in serie difficoltà le classi sociali più povere. La legislazione fascista anticontadina e antioperaia, le fallimentari “battaglie” contro le acque e per il grano, la miope svolta a «quota 90» resero dure le condizioni dei lavoratori. Non è un caso che il massimo divario Nord-Sud sia stato raggiunto proprio durante la dittatura fascista.[5] L’illusione dell’Impero sui colli fatali di Roma convinse allora molti lavoratori a credere nella conquista coloniale e a intraprendere la via del colonato in Libia.[6]
Nel frattempo il carattere totalitario del regime fascista in Italia si accentuava dopo l’entrata in vigore delle leggi razziali del 1938 e Giuseppe Minneci venne richiamato alle armi il 24 febbraio 1939: anche se la guerra non era ancora cominciata bisognava rinforzare la “quarta sponda”. Inizialmente fu richiamato al 10° Reggimento Artiglieri “Volturno” di Caserta. Egli si imbarcò quindi da Napoli il 7 marzo 1939 per giungere a Tripoli due giorni dopo. Lo stesso giorno dell’arrivo venne destinato al 42° Artiglieria «Sabratha», dislocata nella città di Garian nel nord-ovest della Libia.
Già dal 1937 l’Italia aveva cominciato a stanziare truppe in Libia. Nel 1938 venne costituita un’Armata dopo l’aggravarsi dei rapporti con la Francia. A partire dall’aprile del 1937 furono inviati in Libia ingenti rinforzi di truppe e di mezzi meccanizzati e a metà settembre la militarizzazione della Libia si può considerare completata.[7] Tuttavia, vennero mandate altre truppe nel 1938 e nel 1939 in Tripolitania:
Nel 1937,
in relazione alla situazione che si era venuta a creare nel bacino del
Mediterraneo nei confronti dell’Inghilterra e della Francia, si procedette ad
una riorganizzazione delle forze armate della Libia allo scopo di potenziare
l’apprestamento militare di quella colonia nel quadro delle esigenze operative
più presumibili.
Si cominciò
con l'istituire (decreto-legge n. 976 del 12 aprile, riportato dalla circ. 476
G. M. 1937) un «Comando superiore delle forze armate dell'Africa
settentrionale», dal quale dipendevano tutte le forze terrestri, navali ed
aeree stanziate nel territorio e nelle acque territoriali della Libia.
Vennero
quindi costituiti in Italia ed inviati in Libia 2 corpi d'armata, su 2
divisioni ciascuno:
- il XX,
con le divisioni «Sabratha» e «Sirte», destinato in Tripolitania;
- il XXI,
con le divisioni «Cirene» e «Marmarica», destinato in Cirenaica.
La forza
complessiva dei due corpi d'armata è di circa 40.000 uomini. Alla fine del 1937
le forze dell'Esercito insieme con le truppe libiche assommavano a 60.000
uomini circa.
Nel 1938,
con decreto n. 1327 del 1° luglio (inserito nella G.U. n. 202 del 5 settembre
stesso anno e riportato dalla circ. 635 G.M. 1938), le truppe libiche vennero
ordinate in:
- Regio
Corpo Truppe (RCT) libiche;
- Forze del
Territorio militare del sud.[8]
Il temperamento mite del casteldaccese e le sue doti di lavoratore lo portarono a fare domanda di trasferimento nelle compagnie di lavoratori. La domanda venne presentata il 17 agosto 1939. Nulla faceva presagire che da lì a poco Hitler avrebbe invaso la Polonia il 1° settembre 1939, dando così inizio alla guerra in Europa. L’Italia, impreparata e consapevole della propria debolezza, nonostante quindici anni di esercitazioni fasciste il sabato per compiere la “rivoluzione antropologica” mussoliniana, si dichiarava «non belligerante».
Il 1° ottobre 1939 veniva costituito il Raggruppamento lavoratori della Libia, dipendente dal Comando del XX Corpo d’Armata.[9] La domanda di Minneci venne accolta lo stesso giorno; cessò così di appartenere al RCT libiche e passò a far parte del Raggruppamento lavoratori della Libia. Con l’accoglimento della domanda egli assunse la ferma coloniale biennale e gli venne corrisposto un premio d’arruolamento pari a lire 356.[10] Per molti lavoratori italiani assumere la ferma coloniale era una soluzione molto più allettante, poiché garantiva un sussidio e li teneva, almeno inizialmente, lontani dai campi di battaglia e dal servizio prettamente soldatesco.
Nonostante il lavoro, il pensiero dei soldati italiani in Libia era sempre rivolto alla famiglia lontana. Dall’Africa Minneci scriveva cartoline piene d’affetto, in particolare alla figlia più piccola, Giuseppina. Alla moglie, invece, rivolgeva parole d’amore che però trasmettevano un oscuro presagio: «Giuseppina e mai dimenticarti di me come io a te che ti penso tutti i minuti che ti vorrei vedere con desiderio che tu te lo immagini se ho desiderio».[11] In una cartolina successiva le parole erano rivolte alla piccola Giuseppina: «Mangia assai che ti fai grande e grossa e fatti dare i soldi di tua madre e ti compri le cose di mangiare e pure le scarpe».[12]
Il 10 giugno 1940 l’Italia entrava in guerra e la Cirenaica veniva dichiarata «territorio in istato di guerra».[13] E proprio in Cirenaica Giuseppe Minneci venne trasferito nell’agosto del 1940, poiché assegnato dal Comando XX Corpo d’Armata al 21° Reggimento Genio - Raggruppamento lavoratori della Libia 2° Battaglione 13ª Compagnia “Bengasi”, il quale era stato mobilitato l’11 giugno 1940.
La Compagnia si imbarcava allora da Tripoli il 17 agosto 1940 e sbarcava a Bengasi il 19 agosto 1940.[14] Nei mesi successivi all’entrata in guerra dell’Italia nulla di significativo avveniva in Nord Africa. Le testimonianze dei soldati mobilitati ci riportano uno scenario di inazione, di parassiti e di scarsità d’acqua:
la nostra
guerra, in quei giorni, consisteva nel combattere le mosche e le zanzare, un
vero flagello. Mosche di giorno e zanzare di notte, che, unite al caldo,
rendevano la vita e il riposo impossibili. E poi c’era la solita penuria
d’acqua; quando si trovava, aveva lo stesso sapore della gora.[15]
Gli uomini stanziati in Nord Africa «vivono la dura vita della tenda, nel deserto Marmarico, tra la sabbia, il sole cocente, il ghibli[16] e speso anche la sete, lontani dai propri cari ormai da alcuni mesi».[17] Inoltre, la posta arrivava a singhiozzo; gran parte delle lettere per i soldati in Cirenaica rimanevano a Tripoli per mesi prima di essere consegnate. Tuttavia, quello che più condizionava la vita dei soldati italiani era la disperata ricerca d’acqua:
«Il caldo
non manca, quella che manca è l’acqua. Con i tre litri che danno giornalmente c’è
poco da stare allegri, sete ne ho tutti i momenti e poi devo lavarmi e
risciacquare la gavetta. L’acqua che abbiamo è appena sufficiente per bere e
lavarsi il viso. Faccio una grande economia d’acqua, con quella che uso per
pulire la gavetta mi lavo o viceversa e poi bagno il panno della borraccia. Non
parlo d’altro, sarebbe ridicolo». Con l’acqua che avanzava riuscivo perfino a
rinfrescare le parti più ‘basse’ del corpo. Forse ridicolo, purtroppo vero.[18]
Null’altro si conosce dell’esperienza di Giuseppe Minneci in Libia fino al dicembre del 1940.
Cartolina da Tripoli inviata da Minneci alla Famiglia |
La battaglia in Nord Africa – Seconda Parte
Il 10 giugno 1940 l’Italia entrava in guerra e la Cirenaica veniva
dichiarata «territorio in istato di guerra».[19] E
proprio in Cirenaica Giuseppe Minneci venne trasferito nell’agosto del 1940,
poiché assegnato dal Comando XX Corpo d’Armata al 21° Reggimento Genio -
Raggruppamento lavoratori della Libia 2° Battaglione 13ª Compagnia “Bengasi”, il quale era stato mobilitato l’11 giugno
1940. Minneci si imbarcò allora da Tripoli il 17 agosto 1940 e sbarcò a Bengasi
il 19 agosto 1940.[20]
Cartolina da Tripoli inviata da Minneci alla famiglia |
Ricostruire le vicende militari italiane nel Nord Africa esula dall’obiettivo di questo articolo; tuttavia, si proverà a spiegare per grandi linee le sorti del conflitto dal settembre al dicembre 1940 e a comprendere in tal modo la sorte di migliaia di soldati italiani.
Nel settembre 1940 la 10ª Armata italiana riuscì a penetrare in Egitto, allora protettorato britannico, e a stabilirsi fino a Sidi El-Barrani sulla costa mediterranea occidentale. Questo appariva un grande successo militare per il regime fascista; tuttavia, l’esercito britannico non oppose una vera e propria resistenza, poiché i luoghi conquistati, circondati dal deserto e privi di acqua, non erano strategicamente rilevanti.
A Bug-Bug, sulla costa egiziana, venne stabilito pertanto il quartiere del XXI Corpo d’Armata.
La controffensiva britannica ebbe inizio l’8 dicembre 1940. Essa prese il nome di operazione Compass e fu portata avanti dalla Western Desert Force. Questa operazione aveva come obiettivo quello di ricacciare oltre il confine con la Libia le forze italiane. Nelle fila britanniche furono impiegati circa 31.000 soldati contro 150.000 soldati italiani, guidati da Rodolfo Graziani, disposti tra Sidi El-Barrani, Bir Sofafi e Bardia.
L’offensiva britannica doveva durare pochi giorni, ma, a causa della difesa inefficace dell’esercito italiano, si trasformò in una trionfante operazione inglese. Tra il dicembre 1940 e il febbraio 1941 l’esercito inglese riconquistò le posizioni perdute in Egitto, occupò la Cirenaica e fece tra i 105.000 e i 115.000 prigionieri italiani. Con questa operazione Mussolini fu costretto a chiedere l’aiuto tedesco. Tramontava così definitivamente il progetto fascista di «guerra parallela».
Le operazioni militari cominciarono il mattino del 7 dicembre 1940 con un attacco aereo britannico che impedì all’aeronautica italiana di alzarsi in volo. Alla sera del 12 dicembre, dopo quattro giorni di combattimenti, i britannici annullarono i risultati territoriali ottenuti dalla avanzata di Graziani in settembre.
I soldati italiani erano poco addestrati e male impegnati. Tra le varie divisioni non vi era un piano concordato e ciò non consentì all’esercito di affrontare la battaglia con la dovuta risolutezza. L’equipaggiamento risaliva in parte alla Prima guerra mondiale e le armi italiane erano inadeguate e inoffensive contro i mezzi blindati inglesi.
Inoltre, l’esercito britannico impiegato nell’operazione Compass trovò molte circostanze favorevoli. L’esercito italiano non aveva
una
situazione psicologica sostanzialmente poco adatta a sostenere un urto
violento. L’insuccesso iniziale venne giustificato con la deficienza di mezzi,
perciò in breve tempo si diffuse la convinzione che, se non fossero
sopraggiunti rinforzi corazzati non sarebbe stato possibile contrastare
l’avanzata avversaria: “I soldati perdettero gradualmente la fiducia nelle armi
di cui erano dotati ed il carro armato e l’autoblinda del nemico apparvero
loro, invincibili. Tale convinzione, portata fra le retrovie dagli sbandati
della battaglia della Marmarica, produsse un vero e proprio timor panico dei
mezzi corazzati, che contagiò rapidamente tutte le truppe. Da qualcuno è stato
rilevato che l’opera di persuasione degli ufficiali fu scarsa, perché non da
tutti sentita, e comunque inefficace”.[21]
Già da mesi si erano però manifestate forme di scontento tra i soldati italiani. I motivi erano diversi:
«I militari
in Africa – specie quelli che scrivono dalla Cirenaica – lamentano la
difficoltà di cambiare indumenti, l’insufficiente razione d’acqua, la cattiva
confezione e la scarsezza del rancio spesso guasto, l’alto costo delle bevande
e dello scatolame negli spacci (taluno afferma che il vino costa 20 lire al
litro), l’assalto dei parassiti e infine l’impossibilità di procurarsi carta da
scrivere. Le doglianze per la mancanza di carta da scrivere, che i militari
richiedono a casa per rispondere alle famiglie, sono piuttosto diffuse e sembra
che su tal genere, in Africa, si eserciti una certa speculazione (un
sottoufficiale della Cirenaica scrive di aver dovuto pagare 10 lire una busta
con pochi fogli, del tipo di quelle che in Italia costano una lira; qualcuno in
A. O. I. lamenta di aver dovuto pagare fin 5 lire un foglietto ed una busta)».[22]
Proprio nei primi quattro giorni di battaglia, l’avanzata dell’esercito inglese produsse delle vere e proprie rese di massa tra le fila italiane.[23] Nel fatto d’armi di Bug-Bug, proprio dove era dislocato il quartier generale del XXI Corpo d’Armata, Giuseppe Minneci risultò disperso il 12 dicembre 1940. Lo stesso giorno venne dichiarato prigioniero degli inglesi.[24] Da questo momento si perdono le tracce di Giuseppe Minneci.
Dalla cattura alla
prigionia in India – Terza Parte
Il 12 dicembre 1940 Giuseppe Minneci risultò tra i soldati
italiani catturati dagli inglesi nel fatto d’armi di Bug-Bug sulla costa
egiziana.[25]
Minneci diventò un POW (Prisoners of War), sigla con cui erano
identificati i prigionieri di guerra in mano inglese. Gli venne assegnato il
numero 20037.
Pur non avendo notizie certe sulle circostanze della cattura, Minneci, insieme ad altri prigionieri italiani, fu rinchiuso in Egitto a Geneifa nel campo di prigionia n. 306, a circa 200 metri dal Canale di Suez e a 50 km dalla città omonima.[26] Il suddetto campo era utilizzato come punto di raccolta e di transito: da qui, infatti, i prigionieri italiani venivano trasferiti in India, Sudan, Kenya e Sudafrica.
La permanenza in Egitto fu temporanea e per questo i prigionieri furono collocati in tende all’interno di recinti:
«Nella
tenda siamo strettissimi, disposti a raggiera intorno al palo centrale, non
abbiamo neppure lo spazio sufficiente per distenderci completamente; dopo tre
giorni di permanenza alle gambe, gli stivali non vogliono uscire e, quando ci
riusciamo, abbiamo la poco consolante visione delle calze ridotte a brandelli:
è l’unico paio che posseggo, ma spero di provvedere. Quando siamo tutti
sdraiati siamo presi da una grande malinconia: nessuno di noi parla per evitare
di disturbare gli altri evocando dei ricordi cari».[27]
In Egitto il casteldaccese rimase fino ai primi mesi del 1941: «Alla fine della prima settimana di febbraio si delinea una grave preoccupazione per alcuni: si parla di una grossa partenza per l’India».[28]
In effetti la preoccupazione riportata nelle memorie di molti divenne realtà. Tra marzo e aprile 1941 iniziarono le deportazioni in India.[29] Dapprima un convoglio ferroviario portò i prigionieri italiani al porto di Suez:
Finalmente
ci si muove: per entrare sulla linea andiamo indietro, fino al campo d’aviazione
che qualche volta abbiamo visto bombardare. Preso il binario principale si
parte verso Suez. La velocità del convoglio è ridottissima e si ferma molto di
frequente. Ad ogni sosta si propaga da un carro all’altro una poderosa onda di
scossoni avanti e indietro che sulle prime, cogliendoci di sprovvista, ci
sballottano paurosamente gli uni contro gli altri. Siamo trenta su ogni carro e
come spazio sarebbe anche sufficiente, ma non ci si può poggiare da nessuna
parte perché il fondo è cosparso di polvere di carbone e ferro che sporca
maledettamente, e le sponde sono pericolose. Siamo capitati in un carro
scoperto. In marcia una leggera ventilazione ci fa respirare, ma da fermi il
sole è insopportabile. Senza casco non si può resistere e d’altra parte
calzandolo non si riesce a contenere il sudore che scende a rivoletti lungo il
collo. Dagli indizi raccolti da alcuni che conoscono già la zona si arguisce
che dobbiamo ormai essere molto vicini a Porto Suez, e questo ci fa tirare un
sospiro di sollievo. Siamo spossati dal caldo e dalla continua tensione per
prevenire gli scossoni. […] Le nostre condizioni […] sono più disastrose che
mai, oltre alla stanchezza ed al caldo, si aggiunge la mancanza di acqua. […]
ne abbiamo ancora poco più di una bottiglia, sufficientemente fresca, che
decidiamo di consumare razionalmente per farla bastare fino al campo. Quasi
tutti gli altri ne sono completamente privi.[30]
E dopo estenuanti ore di viaggio su vagoni merci, i prigionieri giunsero a Suez attraversando la città sui binari:
I quartieri
di Suez che attraversiamo ripetono i motivi soliti delle città africane. Case
non troppo alte, balconi, frequenti bazar. Le iscrizioni dei negozi sono nelle
lingue più diverse ma predomina l’inglese e il greco è molto frequente.
Procediamo ancora verso un molto dove appena giunti discendiamo dai carri e
veniamo avviati subito per imbarcarci su due rimorchiatori che ci porteranno al
piroscafo.[31]
Da qui i prigionieri italiani furono imbarcati in bastimenti, generalmente delle navi mercantili. I soldati vennero stipati sino all’inverosimile nelle zone di sottocoperta, in spazi angusti dove gli oblò erano bloccati e non passava neppure un filo d’aria. I prigionieri avevano la possibilità di uscire sui ponti scoperti solo per un’ora al giorno sotto scorta, ma era proibito recarsi in altre parti della nave. Il caldo era opprimente e si sudava in continuazione. Non c’erano servizi igienici e il poco cibo che ricevevano era di scarsa qualità. Molti si ammalavano di dissenteria.[32] L’acqua potabile era distribuita solo per due ore. Dopo due settimane di navigazione nelle terribili condizioni descritte i soldati italiani giunsero a Bombay. L’India era allora parte dell’Impero britannico: «Caricati sui piroscafi, attraversavano il Mar Rosso verso sud, transitavano davanti alle coste dell’Eritrea ormai ex italiana, sostavano ad Aden nello Yemen e quindi attraversavano l’Oceano Indiano per dieci lunghi giorni prima di approdare in India, a Bombay».[33]
Sbarcati a Bombay, ad attendere i soldati furono dei vagoni ferroviari appositamente costruiti per il trasporto di truppe. Agli ufficiali furono garantite condizioni migliori:
I divisori
sono costituiti da tralicci di ferro sui quai abbassando o rialzando gli
schienali si ottengono sei posti per ogni scomparto, a sedere o distesi. Appena
in treno ci viene distribuita una trapunta per ciascuno e poi un piatto, un
tazzino, forchetta e cucchiaio. Tutto materiale nuovissimo e ottimo. Questo ci
fa sperare che qui in India il nostro trattamento sia migliore di quello avuto
in Egitto.[34]
Con il treno i prigionieri avrebbero raggiunto i campi di prigionia. Altre lunghe giornate di viaggio in treno attendevano i soldati italiani.
In India gli inglesi costruirono 28 campi di prigionia per i civili internati (tedeschi, italiani e giapponesi che si trovavano in territorio britannico allo scoppio della belligeranza) e per i prigionieri di guerra. In India furono tenuti in prigionia 66.732 italiani, divisi in cinque raggruppamenti di campi. I campi dal n. 1 al n. 8 si trovavano a Bangalore; dal n. 9 al n. 16 a Bairagarh; dal n. 17 al n. 20 a Ramgarh; dal n. 21 al n. 24 a Dehra Dun e Clement Towa; dal n. 25 al n. 28 a Yol, alle pendici dell’Himalaya.[35]
Dopo lo sbarco a Bombay Giuseppe Minneci fu destinato al campo n. 18. Ramgarh si trova nello Stato del Bihar, in una zona torrida e sabbiosa, allora considerata “malarica” dalle autorità britanniche. Ai prigionieri veniva fornita «una pomata da applicare sulle parti scoperte del corpo per proteggersi dagli insetti ed erano previsti, all’interno della baracche, degli appositi fili di ferro per la sistemazione delle zanzariere».[36]
Fino al 1941 i campi POW erano “misti”, poiché ospitavano sia ufficiali che truppa, ma successivamente furono adibiti a Yol campi per soli ufficiali.[37]
In India le condizioni per i prigionieri erano migliori di quelle in Egitto se si considerano l’organizzazione dei campi e il trattamento per i prigionieri; tuttavia, si presentavano nuovi problemi. La zona era malsana, la malaria e altre malattie erano un problema serio e reale.
L’organizzazione dei campi di prigioni era ben diversa da quella dell’Egitto. Ogni campo era suddiviso in wings (ali) e ogni ala era comandata da un ufficiale inglese coadiuvato da un interprete, che era generalmente un soldato maltese.[38] La figura dell’interprete era fondamentale poiché il problema della lingua non era secondario. In Italia, a causa della politica fascista, l’inglese era pressoché sconosciuto e non si studiava a scuola.[39]
Nei campi il tempo per i prigionieri era scandito dall’appello che veniva fatto due volte al giorno, al mattino e al pomeriggio, che costringeva i prigionieri a stare per ore sotto il sole cocente o sotto la pioggia, qualora vi fossero stati errori nella conta.[40]
La maggioranza degli italiani trasferiti nella colonia inglese si impegnò per sconfiggere l’inedia e le malattie, per sopravvivere e tornare a casa.[41] Nei vari campi i più volenterosi si sforzarono di trovare delle soluzioni per ammazzare il tempo: furono realizzati dei campi di calcio o di altri sport, furono costituiti circoli di whist, furono organizzati tornei di scacchi, corsi di lingua inglese o di elettrotecnica, classi di scuola “serale”, create compagnie di teatro.
Ciò serviva a combattere quella che in gergo è chiamata “Febbre del Filo Spinato” (Barbed Wire Fever), una sindrome morbosa che colpisce la psiche di chi si trova rinchiuso in prigionia, circondato da recinzioni e filo spinato:
La
prigionia stravolge idee e sentimenti, altera la percezione della realtà e
rende perfino difficile decifrare il comportamento dei singoli. La “Febbre del
Filo Spinato”, nelle sue varie forme, non ha nulla a che vedere con le
patologie psicotiche, ma rappresenta una reazione mentale alla costante
presenza della “gabbia” di filo spinato, che impedisce a tutti di agire e
decidere. È una depressione reattiva, dovuta al violento allontanamento dal
proprio ambiente, alla costrizione in un luogo controllato da nemici, alla
perdita della libertà e alla povertà di motivazioni. La mancanza di stimoli è
conseguenza diretta della limitata percezione del tempo e altera i rapporti
interpersonali. Tutto diventa stress e fonte di ansia e il disagio che ne
deriva danneggia i vari componenti del sistema, non solo i prigionieri ma
perfino le guardie. La “Febbre del Filo Spinato” non è una malattia infettiva
ma contagia tutti e tutti vi partecipano (la vignetta neozelandese è di per sé
significativa). Nella sua forma estrema la sofferenza psicologica annienta
l’uomo più del dolore fisico e porta a una profonda umiliazione di sé, fino ad
arrivare al suicidio.[42]
A rendere ancora più dura la vita nei campi di prigionia erano le condizioni climatiche: il caldo iniziava a marzo e le temperature superavano solitamente i 40°. Le baracche diventavano dei veri e propri forni. A giugno, poi, cominciava la stagione delle piogge monsoniche:
Melma e
muffa dappertutto, ogni cosa puzzava, i panni emanavano un odore
insopportabile, tutto era umido, fumare era impossibile, non si accendevano
neppure i fiammiferi. Il nostro campo si trasformava in un lago ed era perfino
difficile spostarsi da un punto all’altro, con le scarpe che affondavano nel
fango. Pioveva, pioveva a dirotto e lentamente l’acqua filtrava all’interno
delle baracche, si sopravviveva e si dormiva nell’acqua. Una tristezza infinita
ti penetrava nell’anima e spesso la mente era turbata da cattivi pensieri,
mentre la pioggia continuava a cadere violenta e la nostra prigione, scossa dal
vento, sembrava dover crollare da un momento all’altro. E così sino al termine
delle grandi piogge.[43]
Le fonti in possesso attestano che ancora fino al 24 marzo 1942 Giuseppe Minneci si trovasse nell’ala 4 del campo n. 18 di Ramgarh.[44]
Nel maggio del 1942 i campi di Ramgarh furono chiusi e i prigionieri spostati in altri luoghi di detenzione, ma non per ragioni igieniche o umanitarie visto che non furono mai stati visitati dalla Croce Rossa Internazionale. Le ragioni per cui vennero chiusi furono militari, poiché i giapponesi avevano conquistato la Birmania e si erano avvicinati pericolosamente al territorio indiano. I campi più vicini al confine vennero perciò trasformati in campi di addestramento per l’esercito cinese. Già dal marzo 1942, con la caduta di Rangoon, arrivò l’ordine di trasferimento per i prigionieri. La maggior parte fu trasferita a Bairagarh.[45]
Minneci venne quindi trasferito tra marzo e maggio 1942 al campo n. 9 di Bairagarh.[46] La località si trova a 10 km da Bhopal, quasi al centro della grande penisola indiana ed è posta sul Tropico del Cancro. Oggi fa parte dello Stato del Madhya Pradesh. A Bairagarh erano presenti i campi dal n. 9 al n. 16. I campi nn. 9, 10 e 11 erano a sud, mentre gli altri erano a nord, divisi dai primi dalla ferrovia. In ogni campo vi erano circa 2500 POW e ogni campo era diviso in cinque ali (o wing), dieci baracche per ala.[47] Tale zona era stata dichiarata dalla Croce Rossa Internazionale inabitabile e malarica; le temperature erano torride e il clima umido ed erano presenti stagni e quindi zanzare. Bairagarh era anche soprannominata la “Piana dell’Anofele”.[48] Nonostante le precauzioni prescritte dagli inglesi ai prigionieri, più nelle parole che nei fatti, quasi tutti i POW prima o poi prendevano la malaria, spesso con ricadute anche gravi dopo mesi e talvolta con conseguenze letali.
I reticolati del campo erano alti tre metri; di giorno i
prigionieri potevano avvicinarsi alle reti, ma di notte con i riflettori accesi
era proibito. Le sentinelle che vigilavano il perimetro esterno erano indiane e
avevano l’ordine di sparare a ogni tentativo di fuga o anche soltanto a chi si
fosse avvicinato di notte al reticolato.
A Bairagarh Giuseppe Minneci fu destinato all’ala 4 del campo n. 9 ed ebbe il piccolo conforto di poter stare insieme con un altro casteldaccese, Mariano Manzella (1915-1994), prigioniero degli inglesi dal 10 dicembre 1940.[49] Su Mariano Manzella è in corso un’ulteriore ricerca e sarà pubblicato a breve un approfondimento che ripercorre la vicenda del casteldaccese.
Dal momento della cattura in Africa alla detenzione in India era stato molto difficile, se non impossibile, per i prigionieri avere notizie dalle famiglie. Allo stesso modo era stato estremamente difficile per i familiari avere informazioni chiare su quanto accaduto ai propri cari, sia per le menzogne che il fascismo faceva circolare sulla stampa, relativamente alle campagne militari, sia per le carenze del servizio postale nelle colonie. Inoltre, in molti casi le autorità italiane non erano in grado di fornire informazioni sui soldati in caso di morte o cattura, almeno non con tempestività.
In Italia chi aveva le possibilità o le conoscenze adeguate poteva tentare di rivolgersi al Vaticano o alla Croce Rossa nella speranza di ottenere qualche informazione su mariti, figli o genitori mandati al massacro da Mussolini, al quale interessavano «alcune migliaia di morti per [sedere] al tavolo della pace quale belligerante».[50]
Già nel 1941 i campi di prigionia britannici garantivano un servizio postale: «Per comunicare con i parenti in Italia vi era solo un foglio da lettera prestampato fornito dagli inglesi una volta la settimana, spesso alternato a una cartolina postale sulla quale però si potevano scrivere solo poche righe».[51] Molte delle lettere spedite in Italia si perdevano però lungo il viaggio, soprattutto dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943.
Di Giuseppe Minneci rimangono solamente tre lettere ed è difficile stabilire quante se ne siano perse. Queste lettere erano l’unico modo per
mantenere
un contatto, anche se flebile, con la realtà esterna, di dialogare – a distanza
di migliaia di chilometri – con i […] genitori, di conservare un legame con il
passato, di servare la speranza del domani e di esprimere sentimenti che
importassero veramente a qualcuno.[52]
Nelle lettere i prigionieri potevano chiedere notizie dei familiari, ma non potevano riferire dettagli sullo stato della prigionia o sulla salute o sulle condizioni materiali e psicofisiche alle quali erano sottoposti, poiché le lettere erano controllate delle autorità britanniche prima e alla censura fascista poi: «Ora basta le lettere pensa che li leggo io ma prima li leggono altri, hai capito?».[53]
L’unica libertà consentita ai prigionieri era quella
dell’affetto per i propri cari e della speranza di un prossimo ritorno a casa: «pazienza
e coraggio, speriamo che finisse presto questa vita, sia per noi, per voialtri,
e per tutti ognun di noi e di avere ancora la fortuna di abbracciarci tutti con
le nostre famiglie».[54]
Molti italiani in prigionia allora aprirono gli occhi sulle menzogne del fascismo, sulla totale inadeguatezza degli individui posti ai vertici dell’esercito, sulla fantozziana gestione della guerra in Nord Africa e in Grecia, sulla mala gestione della cosa pubblica. Per molti soldati il fronte di guerra era stato il primo termine di paragone con l’Impero britannico; la gestione delle colonie il secondo. Forse questa nuova consapevolezza sui danni e sugli inganni del fascismo si intravede in un commovente stralcio della lettera di Giuseppe Minneci al figlio Pietro:
ti sono
padre e ti vengo a dare miei consigli per trovarti bene nel tua avvenire.
Prestando in te tutta la massima fiducia del tuo attuale, vengo a disporre la
mia volontà. Cioè: che, se tu sarai promosso dalla 5ª elementare desiderio mio è di farti continuare alle scuole,
e questo non sarebbe altro che il mio più grande premio che ti potrei dare per
il presente e l’avvenire e questo non è altro che dovere mio da buon padre. A
ciò che io vengo a prenotarti non ti sia disgustevole, perché capisco cosa sia
la persona ricca di lettura. Oggi la tua età non arriva all’altezza da poter
concepire al mio sacrificio fatto a tuo bene, dato l’esperienza avuta a mio
riguardo. Se tutto ti andrà bene questo presente anni ti fari scrivere alla
scuola industriale e se la mia presente ti sia complicata a capirla rivolgiti
al tuo insegnante che non mancherà a darti spiegazione in merito. Ti cito che
le iscrizioni delle suddette scuole sono a settembre quindi sappiati regolare e
questo mi raccomando alla tua mamma di come sopra indicato rivolgiti al tuo
maestro di scuola per i tuoi schiarimenti.[55]
Nelle lettere di Minneci qualche riga era lasciata sempre al compaesano Mariano Manzella. Era prassi tra i detenuti garantire al compagno qualche riga per salutare i familiari o semplicemente dare qualche notizia. Era un modo per aumentare le possibilità di fare giungere a casa ulteriori notizie, vista la difficoltà con cui le lettere giungevano a destinazione.
La posta in India, invece, non arrivava con regolarità. Tra il 1942 e il 1943 una lettera impiegava mediamente due mesi e mezzo per giungere al prigioniero. Spesso però i periodi senza posta erano molto più lunghi. I più fortunati riuscivano anche a ricevere qualche pacco o a recuperare parte degli effetti personali lasciati al fronte. Della posta dall’Italia ai prigionieri se ne occupava inizialmente la Croce Rossa Internazionale:
L’importo
per una lettera «via aerea» è di lire 12 – per ogni 5 gr. di peso. Avrete cura
di scrivere sulla busta l’indirizzo seguente: «Prisoner of War Censor Section –
il nome e cognome del prigioniero, il suo numero, Bombay India». Il tutto in
carattere stampato. Metterete la suddetta lettera in una busta ordinaria, la
quale potrà esserci inviata in franchigia, coll’indicazione «Posta Prigionieri
di Guerra». Qualora desiderate che provvediamo a quanto sopra vogliate avere la
compiacenza di inviarci l’importo di lire 12 – a mezzo buoni-risposta
internazionali. Secondo le leggi vigenti in Italia, i familiari hanno la
facoltà di inviare al massimo lire 50 al mese. Volendo, potete farci una
rimessa a mezzo vaglia postale (a tergo del quale vorrete indicare il mittente
e il destinatario). Man mano che scriverete al prigioniero, preleveremo la
spesa del deposito da voi effettuato. Inoltre vi informiamo che i prigionieri
di guerra delle Indie Britanniche hanno la facoltà di scrivere solo con mezzo
di comunicazione normale.[56]
Soltanto a partire dal marzo del 1942 si riuscì a garantire un servizio postale aereo per i prigionieri di guerra:
A partire
dal marzo 1942, in virtù di un accordo bilaterale sottoscritto dall’Italia con
la Gran Bretagna e altri Paesi suoi alleati, la posta dei prigionieri
Anglo-americani in Italia e dei prigionieri italiani detenuti negli USA, in
Canada, in Australia, in Sudafrica, in Gran Bretagna, e nelle colonie
britanniche, ebbe la possibilità di fruire del servizio di posta aerea senza
far ricorso alla mediazione del Comitato Internazionale della Croce Rossa di
Ginevra.[57]
Della permanenza in India di Giuseppe Minneci si conservano anche due fotografie. Ai prigionieri «le autorità inglesi consentirono di inviare una fotografia alle famiglie».[58] Nei campi fu prima quindi mandato un fotografo che scattò fotografie a ogni soldato singolarmente. In questo modo i familiari poterono rivedere i propri cari dopo lunghissimi mesi. Successivamente, una seconda foto fu consentita, ma stavolta a gruppi di dieci persone.[59]
Foto di Giuseppe Minneci nel campo di Bairagarh (marzo-agosto 1943) |
Ai prigionieri veniva corrisposto uno stipendio in base al grado ricoperto nell’esercito. Questa paga poteva essere utilizzata nei capi per l’acquisto di alcuni generi di necessità o per integrare il vitto. Venivano addirittura stampate delle banconote per ogni campo, queste erano chiamate token money e riportavano il nome del campo.[60]
Non mancarono poi nei campi l’ipocrisia, le vessazioni e le bastonate dei fascisti. Personaggi della manifesta fede nel duce costituirono le federazioni del fascio anche nei campi, pretendendo, con metodi ormai collaudati in Italia, il rinnovo della tessera del partito e un contributo in denaro dalla già misera paga. Alcuni tromboni in camicia nera, nonostante lo stato di prigionia, declamavano ancora le vittoriose avanzate dell’Asse e l’imminente caduta inglese, organizzavano marce e altre pantomime fasciste. In molti casi, gli inglesi tendevano a separare gli elementi irriducibili del regime dagli altri detenuti e a confinarli tutti in un unico campo (a Bairagarh il campo dei fascisti era il n. 16).
Molti italiani si erano però resi conto della fallacia e della vacuità del regime e dopo l’8 settembre 1943 cominciarono a collaborare attivamente con gli inglesi, i quali ricambiarono allentando notevolmente le maglie della prigionia, concedendo anche temporanei permessi di uscita.[61]
Giuseppe Minneci (in basso a sinistra) con i compagni della camerata nel campo di Bairagarh |
Nei campi ci si organizzava anche per cucinare e per coltivare qualche ortaggio in un quadrato di terreno dietro la baracca.[62]
Di questo miglioramento delle condizioni di prigionia Giuseppe Minneci non fece in tempo a goderne, poiché il 28 settembre 1943 morì in prigionia di meningite, probabilmente causata dalla malaria.[63] La comunicazione della sua morte giunse alla famiglia soltanto nel giugno del 1944.
In India furono tenuti prigionieri 66.732 italiani. Dal 1944 molti POW furono trasferiti in altre parti dell’Impero britannico, come l’Australia, il Regno Unito o il Canada. In India morirono 588 italiani in prigionia. Di questi, 472, tra cui Giuseppe Minneci, sono seppelliti nel Sacrario Militare italiano di Sewree a Bombay.[64]
Sacrario Militare italiano di Sewree a Bombay |
Esiste ancora oggi nel cimitero cristiano di Bairagarh una cappella costruita dai POW italiani in ricordo dei 165 caduti in prigionia in quel campo tra il 1941 e il 1946. La cappella contiene sei lapidi e nella sesta, al ventunesimo rigo, è riportato il nome di Giuseppe Minneci.
Per gli altri italiani, nonostante l’armistizio dell’8 settembre 1943, il rimpatrio non fu imminente. I prigionieri fecero ritorno solo a partire dalla fine del 1946.
Per saperne di più sugli italiani tenuti in prigionia dagli inglesi nella Seconda guerra mondiale: F. Bersani, I dimenticati. I prigionieri italiani in India, 1941-1946, Milano, Mursia, 1997; A. Gambella, Ospite di Sua Maestà Britannica. Dalla Cirenaica ai campi di prigionia in India, 1940-1943, Gorizia, LEG, 2012; G. Giubilei, Giovinezza. La guerra e la prigionia di una generazione tradita, Milano, Solferino, 2024; C. Grande, La cavalcata selvaggia. Romanzo, Milano, Tea, 2009; E. Morea-A. Orangi, Prisoners of war, Torino, Elena Morea Editore, 2003; D. Spaccapeli, Lettere nella sabbia 1941-1946. Bairagarh, India, Castellana Grotte, CSA, 2011. Sulla guerra italiana in Nord Africa: A. Bongiovanni, Battaglie nel deserto. Da Sidi El-Barrani a El Alamein, Milano, Mursia, 2004; A Del Boca, Gli italiani in Libia, Milano, Mondadori, 2015; La prima offensiva britannica in Africa settentrionale: ottobre 1940-febbraio1941. 1. Narrazione e allegati, Roma, Stato maggiore dell’esercito: Ufficio storico, 1979; G. Long, To Benghazi, Canberra, Australian War Memorial, 1952; M. Montanari, Le operazioni in Africa Settentrionale. Vol. I Sidi el Barrani (giugno 1940-febbraio 1941) – parte prima, Roma, Edizioni Ufficio Storico SME, 19902; Id., Le operazioni in Africa Settentrionale. Vol. I Sidi el Barrani (giugno 1940-febbraio 1941) – parte seconda, Roma, Edizioni Ufficio Storico SME, 19902; G. Rochat, Le guerre italiane 1935-1943. Dall’impero d’Etiopia alla disfatta, Torino, Einaudi, 2008; A. Santangelo, Operazione Compass. La Caporetto del deserto, Roma, Salerno Editrice, 2012.
Risorse web: British Library – Italian Prisoners of
War and Internees in India - https://blogs.bl.uk/untoldlives/2013/10/italian-prisoners-of-war-and-internees-in-india.html
(ultimo accesso: 07/03/2024); Cercandomiononno.blogspot.com - https://cercandomiononno.blogspot.com/
(ultimo accesso: 07/03/2024); Findingnonno.com - http://www.findingnonno.com/ (ultimo
accesso: 07/03/2024); Historicalab – Africa settentrionale - http://www.historicalab.it/Africa%20Settentrionale.htm
(ultimo accesso: 07/03/2024); Il postalista – I dimenticati (prigionieri di
tutti) - https://www.ilpostalista.it/dimenticati_indice.htm
(ultimo accesso: 07/03/2024); Il postalista – la posta dei prigionieri di
guerra - https://www.ilpostalista.it/pow/000.htm
(ultimo accesso: 07/03/2024); Italian prisoners of war - https://italianprisonersofwar.com/
(ultimo accesso: 07/03/2024); La guerra di Umberto - http://cofrancesco.net/index.php?option=com_content&task=view&id=64&Itemid=1
(ultimo accesso: 07/03/2024); Memorie in cammino - https://www.memorieincammino.it/
(ultimo accesso: 07/03/2024); North Africa AMS Topographic Maps - https://maps.lib.utexas.edu/maps/ams/north_africa/
(ultimo accesso: 07/03/2024); Passato e Presente. Prigionieri italiani degli
alleati - https://www.raiplay.it/video/2017/10/Passato-e-presente---Prigionieri-italiani-degli-alleati-1f9180c3-d264-43f0-bef3-a8fd74cf7c99.html
(ultimo accesso: 07/03/2024); Prigioniero a Yol India - https://prigioniero.weebly.com/index.html
(ultimo accesso: 07/03/2024); Regio
esercito – Le forze coloniali. Ordinamento militare generale della Libia - http://www.regioesercito.it/reparti/mvsn/ordmillibia.htm
(ultimo accesso: 07/03/2024).
[1]
Questo contributo è dedicato alla memoria di Giuseppa e Maria Minneci, figlie
di Giuseppe Minneci, che hanno mantenuto vivo il ricordo di un padre affettuoso
per l’intero corso della loro vita.
[2]
M. Avigliano-M. Palmieri, Gli
internati militari italiani. Diari e lettere dai lager nazisti 1943-45,
Torino, Einaudi, 2009.
[3]
E. Morea-A. Orangi, Prisoners of war, Torino,
Elena Morea Editore, 2003, p. 14.
[4]
Archivio di Stato di Palermo (d’ora in poi ASPa), Ufficio provinciale di leva di
Palermo e delle Sottoprefetture di Termini, Cefalù e Corleone, 1841-1925, liste
di estrazione e regg. sommari 15, liste di leva 13, capilista 15, Foglio
matricolare di Giuseppe Minneci (d’ora in poi solo Foglio matricolare).
[5]
E. Felice, Perché il Sud è
rimasto indietro, Bologna, Il Mulino, 2013, pp. 215-216; Id., Ascesa
e declino. Storia economica d’Italia, Bologna, Il Mulino, 2015, pp.
186-203.
[6]
A. Del Boca, Gli italiani in
Libia. Dal fascismo a Gheddafi, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1994, pp.
256-261.
[7]
Ivi, p. 286.
[8]
Le forze coloniali. Ordinamento militare generale della Libia, http://www.regioesercito.it/reparti/mvsn/ordmillibia.htm
(ultimo accesso: 28/10/2023). Sulla composizione del Regio Corpo Truppe libiche
vd. il link http://www.regioesercito.it/reparti/mvsn/ordmillibia.htm
(ultimo accesso: 28/10/2023).
[9]
Legge 29 giugno 1940 n. 1029, Costituzione, inquadramento e trattamento
economico del Raggruppamento lavoratori della Libia.
[10]
ASPa, Foglio matricolare. Vd. Regio decreto 3 settembre 1926 n. 1608, Nuovo
ordinamento militare pei Regi corpi di truppe coloniali della Tripolitania e
della Cirenaica. L’importo è dedotto dal foglio matricolare.
[11]
La cartolina non è datata e non ha timbri postali, indizio che fosse inviata in
busta. Con sicurezza è possibile affermare che sia stata inviata da Tripoli
nelle prime settimane dall’arrivo e prima della destinazione a Garian, poiché
si legge «Queste cartoline che ce scritto cattedrale vuole ch’è una chiesa già
che si vede benissimo e questa chiesa e a Tripoli che io ci o passato di la
vicino ma non ci o potuto entrare perché ci siamo stati pocho a Tripoli e ne
anno partito per qua dove già ci trovamo perora basta addio». Foto n. 1. In
questa cartolina è raffigurata la Cattedrale di Tripoli.
[12]
Foto n. 2. In questa cartolina è raffigurata Piazza Italia a Tripoli.
[13]
ASPa, Foglio matricolare. Sulla dichiarazione di guerra vd. G. Rochat, Le guerre italiane 1935-1943.
Dall’impero d’Etiopia alla disfatta, Torino, Einaudi, 2008, pp. 296-297.
[14]
ASPa, Foglio matricolare.
[15]
D. Spaccapeli, Lettere nella
sabbia 1941-1946. Bairagarh, India, Castellana Grotte, CSA, 2011, p. 29.
[16]
Forte vento di sud, sud-ovest o sud-est che talora spira, spec. in primavera e
in autunno, dalle zone di alte pressioni dell’Africa verso il Mediterraneo al
verificarsi su questo di depressioni barometriche, causando elevazione della
temperatura e diminuzione dell’umidità relativa.
[17]
A. Gambella, Ospite di Sua
Maestà Britannica. Dalla Cirenaica ai campi di prigionia in India, 1940-1943,
Gorizia, LEG, 2012, pp. 42-43.
[18]
D. Spaccapeli, Lettere nella
sabbia, cit., pp. 29-30.
[19]
ASPa, Foglio matricolare.
[20]
Ibid.
[21]
M. Montanari, Le operazioni in
Africa settentrionale. Vol. I – Sidi El Barrani (Giugno 1940 – Febbraio 1941).
Parte seconda, Roma, Stato Maggiore dell’Esercito – Ufficio Storico, 19902,
p. 434.
[22]
F.500.24028 data 30.8.1940 della Dir. Gen. P. S in M. Montanari, Le operazioni in Africa settentrionale. Vol. I
– Sidi El Barrani (Giugno 1940 – Febbraio 1941). Parte prima, Roma, Stato
Maggiore dell’Esercito – Ufficio Storico, 19902, p. 96.
[23]
Africa Settentrionale. L’offensiva britannica: l’Operazione Compass, http://www.historicalab.it/Africa%20Settentrionale.htm#Loffensiva_britannica:_loperazione_Compass_
(ultimo accesso: 03/03/2024).
[24]
ASPa, Foglio matricolare. In Archivio Centrale dello Stato, Ministero
della Difesa, Commissariato Generale per le onoranze ai caduti, Schede dei
prigionieri di guerra del Regio esercito italiano della Seconda guerra
mondiale, n. 486-752 Minneci Giuseppe è riportato invece che il soldato fu
catturato il 4 gennaio 1941 a Bardia. Tuttavia, questo dato diverso indica probabilmente
l’inizio della detenzione nel campo di prigionia in Egitto. Quest’ultima
informazione concorda con le fonti della Croce Rossa Internazionale: Information
contained in the ICRC Archives, Geneva, 07/02/2024.
[25]
ASPa, Foglio matricolare. In Archivio Centrale dello Stato, Ministero
della Difesa, Commissariato Generale per le onoranze ai caduti, Schede dei
prigionieri di guerra del Regio esercito italiano della Seconda guerra
mondiale, n. 486-752 Minneci Giuseppe è riportata come data di cattura
il 4 gennaio 1941 a Bardia. Tuttavia, questa seconda ipotesi appare poco
probabile in quanto dal numero assegnato in quanto prigioniero possiamo
ipotizzare che si trattasse dei “primi” prigionieri dei 105.000. Il sistema di attribuzione
del numero POW è spiegato in G. Galuppini,
Come furono catturati i primi prigionieri della guerra 1940-1943,
«Rassegna. Mensile socio-culturale della A. N. R. P.», n. 6-7-8, Giugno-Agosto
2009, pp. 19-21.
[26]
Elenco dei prigionieri detenuti nel Campo 306 ricevuto dalla Croce Rossa
Internazionale il 24 dicembre 1941: Information contained in the ICRC
Archives, Geneva, 07/02/2024.
[27]
A. Gambella, Ospite di Sua
Maestà Britannica. Dalla Cirenaica ai campi di prigionia in India, 1940-1943,
Gorizia, LEG, 2012, p. 83.
[28]
Ivi, p. 105.
[29]
Elenco dei prigionieri trasferiti da Geneifa in India secondo una fonte della
Croce Rossa Internazionale: Information contained in the ICRC Archives,
Geneva, 07/02/2024.
[30]
Ivi, pp. 158-159.
[31]
Ivi, p. 160.
[32]
Cfr. D. Spaccapeli, Lettere
nella sabbia 1941-1946. Bairagarh, India, Castellana Grotte, CSA, 2011, p. 75;
P. Cofrancesco, La guerra di
Umberto. “Prisoner of War” in India, http://cofrancesco.net/index.php?option=com_content&task=view&id=64&Itemid=86&limit=1&limitstart=6
(ultimo accesso: 30/10/2023).
[33]
G. Marizza, La storia dei
diecimila soldati italiani prigionieri in India (1ª parte), «L’Occidentale.
Orientamento quotidiano», 30 gennaio 2010, https://web.archive.org/web/20131110234041/http:/www.loccidentale.it/articolo/la+storia+dei+diecimila+soldati+italiani+prigionieri+in+india+%281a+parte%29.0085440
(ultimo accesso: 14/10/2023).
[34]
A. Gambella, Ospite di Sua
Maestà Britannica, cit., p. 183.
[35]
D. Spaccapeli, Lettere nella
sabbia 1941-1946, cit., p. 12.
[36]
Ivi, p. 79.
[37]
G. Galuppini, La visita dell’ispettore
della CRI, «Rassegna. Mensile socio-culturale della A. N. R. P.», n. 11-12,
Novembre-Dicembre 2008, p. 22.
[38]
Cf. A. Gambella, Ospite di Sua
Maestà Britannica, cit., p. 189.
[39]
G. Galuppini, La visita del
capitano Zammit, «Rassegna. Mensile socio-culturale della A. N. R. P.», n. 9-10-11,
Settembre-Novembre 2007, p. 15.
[40]
A. Gambella, Ospite di Sua
Maestà Britannica, cit., p. 190; D. Spaccapeli,
Lettere nella sabbia 1941-1946, cit., p. 83.
[41]
Cfr. D. Spaccapeli, Lettere
nella sabbia 1941-1946, cit., p. 77.
[42]
D. Spaccapeli, Lettere nella
sabbia 1941-1946, cit., pp 95-96.
[43]
D. Spaccapeli, Lettere nella
sabbia 1941-1946, cit., pp 83-84. Vd. anche A. Gambella, Ospite di Sua Maestà Britannica, cit., p. 198.
[44]
Presso la British Library, nella Asia, Pacific and Africa Collection, sono
tenuti gli elenchi alfabetici di tutti i prigionieri di guerra italiani in
India, compilati dal POW Information Bureau del Quartier generale di New Delhi,
con grado, numero di matricola, corpo di appartenenza e campo di prigionia,
oltre a successive annotazioni che riguardano i trasferimenti di campo, la data
di liberazione e la destinazione. Riferimenti per la consultazione delle liste
sono: IOR/L/MIL/5/1069 dalla A alla I; IOR/L/MIL/5/1070 dalla J alla Z. Nella
parte relativa ai campi di prigionia il primo numero indica il campo al 24
marzo 1942, quelli successivi si riferiscono ad eventuali spostamenti. Cfr. Italian Prisoners of War and
Internees in India, https://blogs.bl.uk/untoldlives/2013/10/italian-prisoners-of-war-and-internees-in-india.html (ultimo accesso: 30/10/2023). Il
dato è confermato da Capture cards from the Italian card-index in ACICR
C G2 IT, article 19930770165.
[45]
D. Spaccapeli, Lettere nella
sabbia 1941-1946, cit., p. 79; G. Cavallini,
Ramgarh. Il campo e la corrispondenza, https://www.ilpostalista.it/dimenticati/192.htm
(ultimo accesso: 30/10/2023); G. Cavallini,
Ospiti nelle colonie di sua Maestà. L’India, https://www.ilpostalista.it/dimenticati/198.htm (ultimo accesso: 30/10/2023).
[46] Capture card from the
Italian card-index in ACICR C G2 IT, article
19930770165.
[47]
D. Spaccapeli, Lettere nella
sabbia 1941-1946, cit., p. 82.
[48]
L’anofele è un genere di zanzare, alcune delle quali trasmettono la malaria e
abbondano nelle regioni a clima temperato caldo.
[49]
Mariano Manzella si trovava prigioniero nell’ala 3 del campo 11 di Bairagarh (Capture card
from the Italian card-index in ACICR C G2 IT, article 19930770165). Su
Mariano Manzella è in corso un’ulteriore ricerca e sarà pubblicato a breve un approfondimento
che ripercorre la vicenda del casteldaccese.
[50]
P. Badoglio, L’Italia nella
Seconda guerra mondiale (Memorie e documenti), Milano, Arnoldo Mondadori
Editore, 1946, p. 37.
[51]
D. Spaccapeli, Lettere nella
sabbia 1941-1946, cit., p. 89.
[52]
D. Spaccapeli, Lettere nella
sabbia 1941-1946, cit., p. 90.
[53]
Lettera di Giuseppe Minneci alla moglie Giuseppa La Spisa, 8 febbraio
1943.
[54]
Lettera di Giuseppe Minneci alla moglie Giuseppa La Spisa, 8 febbraio
1943.
[55]
Lettera di Giuseppe Minneci al figlio Pietro, s. d. La lettera citata è
l’unica delle tre conservate che non riporta la data perché mutila della parte
superiore del foglio.
[56]
Comunicazione del Comitato Internazionale della Croce Rossa in E. Morea-A. Orangi,
Prisoners of war, Torino, Elena Morea Editore, 2003, p. 133.
[57]
M. Marchetti, Affrancature sostitutive dei francobolli nella posta aerea dei
P. O. W. Italiani nella Seconda Guerra Mondiale, https://www.ilpostalista.it/pow/018.htm
(ultimo accesso: 02/11/2023).
[58]
G. Galuppini, La fotografia
“per la famiglia”, «Rassegna. Mensile socio-culturale della A. N. R. P.»,
n. 1-2-3, Gennaio-Marzo 2009, pp. 14-16.
[59]
Ibid. Le foto non sono datate, ma è possibile ipotizzare che siano state
scattate tra marzo e agosto del 1943 per via della fascia nera che Minneci
porta cucita sulla maglia in segno di lutto per la scomparsa della madre
avvenuta il 15 novembre 1941 e di cui il soldato non è certamente a conoscenza
prima del 14 febbraio 1943.
[60]
«Periodicamente ai prigionieri veniva corrisposta la paga prevista, in sterline
inglesi, ma solo nella misura del 50%, e la quota rimanente sarebbe stata
consegnata il giorno del sospirato rimpatrio» (G. Marizza, La storia dei diecimila soldati italiani
prigionieri in India (2a parte), «L’Occidentale. Orientamento quotidiano», https://web.archive.org/web/20131110232017/http:/www.loccidentale.it/articolo/a.0085800
(ultimo accesso: 02/11/2023). Sulla moneta dei campi di prigionia vd. G. Cavallini, La moneta dei prigionieri
italiani in India, https://www.ilpostalista.it/dimenticati/195.htm
(ultimo accesso: 02/11/2023); G. Galuppini,
Token Money. Ricordi del prigioniero di guerra nr 10, https://prigioniero.weebly.com/moneta.html
(ultimo accesso: 02/11/2023); Money used in Prisoner-of-War Camps in India,
https://indianbanknote.blogspot.com/2010/05/india-prisoner-of-war-coupons.html
(ultimo accesso: 02/11/2023).
[61]
A tal proposito può risultare molto utile C. Grande,
La cavalcata selvaggia. Romanzo, Milano, Tea, 2009.
[62]
A. Gambella, Ospite di Sua
Maestà Britannica, cit., p. 216.
[63]
Archivio Centrale dello Stato, Ministero della Difesa, Commissariato Generale
per le onoranze ai caduti, Schede dei prigionieri di guerra del Regio esercito
italiano della Seconda guerra mondiale, n. 486-752 Minneci Giuseppe.
[64]
È seppellito nel Sacrario Militari di Bombay, riquadro sinistro, fila F, tomba
n. 17 in Archivio Centrale dello Stato, Ministero della Difesa, Commissariato
Generale per le onoranze ai caduti, Direzione Storico-Statistica – Ufficio
Estero e Rimpatri, Lettera del direttore Col. AArnn Roberto Esposito, s.
n. Roma 13 novembre 2020.
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